La meditazione del Vescovo Armando in occasione del Mercoledì delle Ceneri

Pasqua è l’invito ad osare un nuovo inizio

LoMercoledì 17 febbraio, il Clero diocesano si è riunito in Cattedrale per la Santa Messa, presieduta da don Ugo Ughi (il Vescovo Armando è ancora in isolamento per Covid-19 e non ha potuto presiedere), con il rito dell’imposizione delle Sacre Ceneri. Riportiamo la meditazione che il Vescovo ha scritto per l’occasione.

Meditazione ai presbiteri, diaconi, religiosi per la Quaresima – Pasqua 2021

Carissimi, se siamo cristiani, presbiteri, diaconi o religiosi, lo dobbiamo al fatto che Dio ci ha “stregati”, ci ha cercati, ci ha visitati. All’inizio del nostro ministero, infatti, c’è una esperienza di seduzione: nessuno di noi si sarebbe imbarcato nell’avventura ministeriale, se non l’avesse percepita come accattivante e promettente. Abbiamo così rischiato la vita su una promessa che ci è sembrata carica di positività. È molto bello pensare agli inizi del nostro ministero come all’incontro con il roveto ardente (Es 3), così come è bello ritornare agli inizi della chiamata dove Dio ci ha visitati con l’esperienza della meraviglia. E mi sembrano incantevoli le parole con cui Stefano, negli Atti degli Apostoli, commenta l’avvicinamento di Mosè al roveto «… rimase stupito»; e subito dopo aggiunge: «Mosè volle avvicinarsi per capire e per vedere» (At 7,31). Anche noi possiamo affermare che all’inizio del nostro ministero c’è stata un’esperienza di meraviglia e stupore, che ha avuto la forza di generare domande e curiosità.

Penso che lo stato di salute di una persona, di una comunità, di un popolo, dipende da quanta meraviglia custodisce, da quanto stupore e domande porta dentro di sé. È fin troppo facile dire che l’attuale momento di vita sia a corto di meraviglia, di curiosità e di domande. Così è fin troppo evidente descrivere un contesto sociale dove tutti gridano parole certe, risposte sicure, bandiere alzate. Dobbiamo essere onesti, anche nella nostra vita cristiana o presbiterale si tende a dare risposte più che avventurarsi sul terreno delle domande. Come pure credo sia abbastanza scontato dire che in questo momento lo stato d’animo delle persone tenda più allo scoraggiamento che all’entusiasmo e alla meraviglia.

Chiediamo a Dio di non trovarci ad accendere il roveto da soli; chiediamo a Dio che ci preservi dagli idoli e in particolare dall’idolo di farci noi un roveto. Il rischio mortale è di dar vita ad una danza triste attorno ad un vitello cui potremmo dare tanti nomi. Ognuno, nella sua meditazione, cerchi di trovare il suo, cerchi di dare un nome ai tanti idoli che quotidianamente sostituiscono il roveto ardente e che tentiamo di procurarci per riempire quella sensazione di assenza di Dio dentro la nostra vita

Convertitevi

Fragilità – La società basata sull’efficienza e sulla prestazione considera negativamente, o addirittura tende a negare, la fragilità. Non si può dimenticare l’esistenza di un tallone di Achille che ciascuno, prima o poi, riconoscerà nella propria storia, o in qualche esperienza, o nella propria personalità, riflesso di una comune strutturale condizione umana. La fragilità rifà l’uomo, mentre la potenza lo distrugge, lo riduce a frammenti che si trasformano in polvere. La fragilità che sperimento richiama continuamente al bisogno dell’altro.

Paura – Il vangelo di Marco è interamente attraversato dalla dialettica fra paura e fede: essa riguarda anzitutto i discepoli e lo stesso Gesù ne viene toccato. Questa esperienza consente di comprendere come la vita del credente debba affrontare, nel suo difficile percorso verso il pieno affidamento alla parola evangelica, la fiducia e l’abbandono in Dio. A partire dall’episodio della tempesta sedata, nell’intero vangelo di Marco, si evidenzia il dispiegarsi del tema: si arriva fino alla croce, momento in cui culminano sia la paura, sia l’affidamento. Sottolineando questa tensione drammatica, l’evangelista che quest’anno ascoltiamo nelle assemblee domenicali, fa vedere come Gesù ha attraversato la prova della paura e della morte, perché i discepoli di ogni tempo possano non perdersi nell’ora della prova, ma imparino anch’essi la forza della fede che vince ogni paura.

«Il diavolo è il pessimismo. Abbandonarsi all’angoscia che diminuisce le energie, il credere che il male vincerà, l’aspettarsi sempre il peggio: ecco come il diavolo oggi tenta i deboli … E purtroppo ha molti alleati. Sono coloro che sanno solo lamentarsi e nulla fanno per scoprire le forze positive…» (B. Haring)

La grazia presuppone la natura … e la porta a compimento

Tutto il cammino che hanno fatto gli Apostoli con Gesù, dalla chiamata fino alla Pasqua, è stato importante e fondamentale affinché essi facessero verità su loro stessi. Da questo possiamo desumere che non siamo in grado di poter fare una vera esperienza di Pentecoste se non stiamo facendo un cammino di verità riguardo a noi stessi, alla nostra persona

Gesù ha preso per mano gli apostoli e li ha guidati fino alla Pentecoste facendo compiere loro un cammino di umiltà, cioè di verità e di luce su loro stessi. Solo così, la prima comunità cristiana, riunita in preghiera con Maria nel cenacolo, avrebbe potuto essere pronta a fare l’esperienza della discesa dello Spirito Santo

In tre anni di vita con Gesù gli apostoli non hanno “detto le preghiere” ma sono stati con Gesù per il solo motivo di starci insieme. Il loro rapporto con Gesù era fondato su una relazione umana profondamente intima, di grande condivisione. In questo modo, relazionandosi con Gesù, hanno potuto fare verità su loro stessi, capire chi erano veramente. Gesù ha messo al primo posto la loro maturazione umana facendo in modo che venissero fuori tutti i loro difetti, le loro debolezze, i loro progetti umani, la loro natura

Prima della grazia ci vuole la natura, in seguito la grazia la perfeziona. Prima Gesù ha voluto percorrere un cammino di maturità umana, di guarigione interiore con gli apostoli per prepararli alla discesa dello Spirito Santo, al dono dei doni.

Tutti noi siamo dei vasi nelle mani del vasaio. Il vaso è pieno di schifezze. Per renderlo nuovo bisogna prima svuotarlo da tutte le sue impurità, bisogna scorticarlo perché il vaso possa essere poi riempito dalla grazia

L’umanità di Gesù: una vita buona, bella, felice: questa dovrebbe essere la vita cristiana, a immagine di quella vissuta da Gesù. Occorre imparare dall’umanità di Gesù: compassione, com-promissione, esposizione

Queste parole che rivolgo a voi come aiuto a esaminare il nostro ministero, aiutano a comprendere meglio il percorso che stiamo facendo, a diversi livelli, nella formazione diocesana. Ascolto, relazione, empatia, sinodalità diventano esperienze per attraversare insieme questo tempo.

La spiritualità del ministero

«Io, infatti, sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana» (1 Cor 15,9-10a

Paolo scopre in tutta la sua insospettabile gratuità l’amore del Cristo, un amore preveniente e generoso. Nelle sue lettere Paolo non farà che ritornare continuamente su questo tema: la salvezza viene da Dio, non dall’uomo; è la fede che salva, non le opere

Per grazia di Dio sono quello che sono: da persecutore ad apostolo, questo il passaggio che ha fortemente impressionato e sorpreso Paolo, riempiendolo di meraviglia ogni volta che ricorda e racconta. Nulla più di questo passaggio – da peccatore ad apostolo – lascia trasparire l’assoluta gratuità dell’intervento salvifico del Signore

Sorprendente è anche l’insistenza di Paolo nel descrivere la sua condizione precedente: il suo comportamento, il suo zelo per la legge, la sua accanita persecuzione dei cristiani. Perché tanta insistenza? Certamente per dare più risalto alla gratuità dell’iniziativa di Dio, ma anche per porre in evidenza l’ampiezza del mutamento che la chiamata ha comportato. Non c’è chiamata senza esodo: è questo un motivo che ricorre in tutti i racconti di vocazione

Un altro tratto da notare: Paolo ha colto nell’incontro con Cristo un immediato legame con la missione ai pagani. Perché? La ragione non può essere che il motivo della gratuità. Se la salvezza di Cristo è gratuita, allora non può essere che incondizionata. Non c’è più spazio per una missione che distingue tra popolo e popolo, tra vicini e lontani. «Gesù Cristo ha voluto mostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, ad esempio di quanti avrebbero creduto in lui» (1 Tm 1,16)

Ed allora non ci scoraggiamo

 «Investiti di questo ministero non ci scoraggiamo» (cfr 2 Cor 4,1)

L’apostolato è una dura fatica. Ma non è la fatica che scoraggia.

L’apostolo delle genti offre un’ampia descrizione dei suoi travagli che vi invito a meditare (cfr 2 Cor 11,23-29). Quanto grande fu la delusione di vedere le proprie comunità affascinate e sedotte da predicatori abili nel confondere e nel contrabbandare le proprie idee in nome di Cristo; la delusione di vedere un lungo e paziente lavoro distrutto, ripetutamente constatando che la parola del Vangelo appare, a volte, più debole di altre parole. Al fondo c’è proprio questa esperienza: la ripetuta constatazione della Parola rifiutata e tradita, la tenace persecuzione degli avversari, il tradimento delle proprie comunità, il vedersi incompreso e accusato proprio in ciò che gli era più caro: la fedeltà a Cristo, il disinteresse e la libertà, l’inefficacia (apparente) della Parola annunziata.

Come ha reagito Paolo?  Paolo è sereno, perché è convinto che il suo incarico viene da Cristo. La sua unica preoccupazione è di restare fedele a Cristo. Non si preoccupa del successo, né di compiacere: «Non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù, il Signore» (2 Cor 4,5)

Chi pretende una presenza di Dio visibile a ogni costo, appariscente, clamorosa, immediata, non incontrerà mai il Signore, e ne resterà perennemente scoraggiato. E sarà sempre tentato di affrettarne i tempi con mezzi non evangelici. La parola di Dio, certo, è efficace, ma non spetta all’uomo determinarne i tempi e le modalità.

Pasqua è l’invito ad osare un nuovo inizio

La vita non è soltanto bella, piacevole, armoniosa. La vita, a volte, può fare davvero male. E chiunque prometta di poterci fare qualcosa ment

Paura e solitudine, malattia e dolore, morte e disperazione resteranno. Eppure, non hanno l’ultima parola. È questo il messaggio di 

Questa festa non cancella il buio, però mi promette che Dio mi accompagna attraverso ogni buio. Questa festa è la promessa che l’ultima parola non ce l’ha la morte; l’ultima parola ce l’ha sempre l’amore e la vita

L’importante a Pasqua è la vita, la mia vita. Pasqua è l’invito ad osare un nuovo inizio. Pasqua è l’invito a incominciare da capo, passando per tutte le oscurità, tristezze, paure e solitudini. Pasqua è una luce fioca di un mattino in cui non si canta un alleluia, eppure il sepolcro vuoto, le pietre rotolate via raccontano della vita a dispetto di ogni morte

Pasqua è un nuovo inizio, ma ce ne accorgeremo soltanto vivendo e amando

‘Desiderata’ per percorsi quaresimali-pasquali: per essere cristiani e buoni ministri bisogna star bene.

Avere cura di sé stessi e degli altri

Siamo soddisfatti di noi stessi? Siamo capaci di autocritica? Un rilevatore significativo del rapporto con noi stessi è l’organizzazione del tempo: potremmo esserne schiavi (nel senso che non abbiamo tempo, e siamo continuamente presi dalle cose da fare e dagli impegni da svolgere), o potremmo esserne padroni, sapendo fare le scelte giuste fra gli impegni e le responsabilità. Come del resto appare determinante se e quanto tempo diamo al riposo e al tempo libero. Occorre riconoscere la necessità di passare dalla logica del sacrificio, vista come nota qualificante e predominante dell’essere cristiano, alla logica del benessere proprio e altrui: solo delle persone soddisfatte possono essere discepoli di Cristo e araldi della buona notizia.

Appare urgente liberarci dal mito dell’efficienza che spesso dà luogo alla frustrazione, alla capacità critica di guardare con realtà e lealtà alla nostra azione pastorale e chiederci sinceramente il perché dei nostri insuccessi.

Parlando delle relazioni con l’altro, con gli altri, faccio ricorso all’immagine della “cura” che l’agricoltore, con competenza e passione, mette nel far crescere le piante del suo campo: le relazioni interpersonali richiedono proprio questo prendersi cura

La fraternità presbiterale è la cifra più significativa della qualità e della vitalità di un presbiterio. «La fraternità presbiterale è componente dell’identità del presbitero, perché non esiste una identità, dal punto di vista psicologico, senza una appartenenza» (Amedeo Cencini)

Appartenenza

L’appartenenza non è lo sforzo di un civile stare insieme, non è il conforto di un normale voler bene. L’appartenenza è avere gli altri dentro di sé. È quel vigore che si sente se fai parte di qualcosa che in sé travolge ogni egoismo personale. «Sarei certo di cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire noi» (G. Gaber)

 «La nostra società vince quando ogni persona, ogni gruppo sociale, si sente veramente a casa. In una famiglia, i genitori, i nonni, i bambini sono di casa; nessuno è escluso. Se uno ha una difficoltà, anche grave, anche quando “se l’è cercata”, gli altri vengono in suo aiuto, lo sostengono; il suo dolore è di tutti … Nelle famiglie, tutti contribuiscono al progetto comune, ma senza annullare l’individuo; al contrario, lo sostengono, lo promuovono. Litigano, ma c’è qualcosa che non si smuove: quel legame familiare … Le gioie e i dolori di ciascuno sono fatti propri da tutti. … Amiamo la nostra società, o rimane qualcosa di lontano, qualcosa di anonimo, che non ci coinvolge, non ci tocca, non ci impegna?» (Papa Francesco, Fratelli tutti, n. 230).

E tutto ciò, non potrebbe e dovrebbe riguardare la nostra Chiesa diocesana.

Condivisione

Condivisione, dal verbo con -dividere, significa possedere insieme, offrire del proprio ad altri. La condivisione nasce dallo stare in compagnia, dal mettere insieme il pane della tavola e quello dell’anima, come suggerisce un vecchio proverbio persiano: «Quando hai due soldi, con uno compra il pane, con l’altro dei giacinti per l’anima». La condivisione dunque implica “l’esistenza” dell’altro. La condivisione si fa “alla presenza” dell’altro, si condivide un percorso, ma anche una preghiera, una passione, una visione del futuro, le speranze. La condivisione esprime anche il desiderio di creare comunità, legami, di sperimentare forme nuove di relazioni.

Ma la condivisione non è una strada sempre facile da percorrere. Infatti, lo spirito di condivisione è forse ciò che più manca ai nostri giorni, soprattutto nella parte ricca del mondo. Chi ha molto vuole ancora di più e non accetta di condividere ciò che ha con gli altri.

Tante difficoltà si incontrano anche sul terreno delle idee e su quello della verità in campo religioso. Perché vogliamo che gli altri la pensino sempre come noi? Che credano in ciò che noi crediamo.

Da cristiani non possiamo che guardare a Cristo, esempio di condivisione, di sacrificio per gli amici e segno di speranza per un mondo in cui non ci si può salvare da soli ma soltanto nella condivisione, nello spezzare il pane con l’altro, con il povero.

Altruismo

L’altruismo è l’interesse per il benessere altrui, la disposizione a interessarsi degli altri e al loro bene, anche sacrificandosi, ponendo il bene altrui come fine delle proprie azioni.

L’idea di altruismo che noi abbiamo in mente è spinta ad anteporre il bisogno dell’altro al proprio, in forza di una motivazione che supera le ambiguità delle teorie psicologiche che dubitano che l’essere umano sia capace di comportamenti altruistici in senso pieno, non motivati da qualsiasi ricompensa presente o futura

Papa Francesco usa parole impegnative per indicare l’origine e il fine dell’agire cristiano: «il cristiano è uomo e donna di storia, perché non appartiene a sé stesso, è inserito in un popolo che cammina. Non si può pensare ad un egoismo cristiano. L’identità cristiana è il servizio non l’egoismo. Siamo chiamati al servizio. Essere cristiano non è un’apparenza o anche una condotta sociale, non è un po’ truccarsi l’anima, perché sia un po’ più bella. Essere cristiani è fare ciò che ha fatto Gesù: servire»

Il linguaggio della speranza

Siamo chiamati a cambiare il linguaggio, lo stile della narrazione dei fatti, perché spesso escono dai nostri discorsi parole di condanna, di esclusione e di giudizio. Può succedere anche a noi, come a Mosè nel deserto, di guardare al popolo di Dio e dire «l’ho forse generato io tutto questo popolo?» (Nm 11,12). La conversione che l’incontro con il roveto ci porta, è la stessa di Mosè che, ad un certo punto, diventa tutt’uno con quella gente al punto da arrivare a dire «se cancelli loro, cancella anche me» (Es 32,32).

Questo è il vero itinerario! Curiamo anche il modo di parlare della gente, delle situazioni e delle storie, affinché possa emergere, dal nostro parlare, un uomo che vede l’eterno, che vede il Padre, un uomo che non dice mai “basta”, un uomo che ti dà speranza quando tutti te l’hanno tolta, perché porta la speranza di Dio, non la sua. Se ci potessero vedere così, apriremmo nuovi sentieri di evangelizzazione: la nostra gente affaticata e avvilita sul piano morale, sconquassata da ritmi di vita assolutamente disumani, ha bisogno di vedere che qualcuno spera anche quando non c’è più la voglia di sperare.

Forse possiamo fare l’esperienza che il Vangelo è veramente vita, che la vita di Gesù di Nazareth è veramente vita buona, vita bella. È arrivato il momento in cui noi presbiteri, noi cristiani, raccontando l’amore del nostro Dio, non dobbiamo raccontarlo come un dovere da assumere, ma semplicemente come la vita. Noi non vendiamo doveri, non vendiamo norme, non vendiamo prescrizioni, noi raccontiamo una vita che, una volta incontrata, non la lasci più perché, anche se si dovesse trasformare in una valle oscura, riesci ad attraversarla al sicur