Eccolo il 125° pastore entrato a Novara domenica 5 febbraio (il primo fu San Gaudenzio, il suo predecessore è stato Renato Corti). Pronto a mettersi in gioco e a trasformare la comunità religiosa in un laboratorio, al punto da pensare, senza metafora, a un seminario per laici. «Oggi – dice con ironia – sono il vescovo d’Italia che forse dovrà fare più chilometri, essendo la nostra diocesi geograficamente fra le più grandi. Amare una Chiesa non è un’impresa da poco, perché bisogna costruirla come un edificio saldo, aver cura che la sposa sia senza macchia né ruga. Non perchè sogniamo una Chiesa eterna adolescente, ma la vogliamo affascinante, non vecchia, ma forte, attraente, solida. A servizio della gente e non schiava dei poteri. In questi giorni sono passato da una chiesa in foto a una sposa in carne e ossa».
Brambilla va dritto al nocciolo…
«Bisogna che la sposa sia tenuta bene, anche un po’ coccolata, in questo tempo in cui tutti si richiudono nel loro privato e giudicano che una cosa è buona, se far stare bene, se suscita emozioni, ma non arrischiano sogni, progetti comuni e sfide per il futuro».
Dal presule nato a Missaglia (Lecco) 62 anni fa i sacedoti forse si attendono subito una rotta da seguire…
«Per accogliere le ferite degli uomini d’oggi, per farsi prossimi a loro, dobbiamo abitare questo altrove e frequentare il borgo deserto, dove brucia il roveto che non si consuma. Ma bisogna entrarvi a piedi nudi, senza il supporto della nostra potenza mondana. Dobbiamo toglierci i calzari. Le comunità cristiane, le relazioni umane sono capaci di entrare in modo disarmato e disarmante nel roveto che non smette mai di bruciare? La gente quando viene da noi si sente capita, guarita, nutrita, riceve fiducia, alimento per la vita della settimana?».
Il suono della domenica dov’è?
«La domenica è il tempo della festa, l’uomo e la donna smettono di essere una macchina. Custodiamo la domenica e la festa, altrimenti perderemo la nostra umanità: ci ridurremo a essere soggetti produttivi, ma poi non ci sarà più prossimità, aiuto, comprensione, sostegno e solidarietà neppure nel mondo del lavoro».
La crisi e i giovani…
«Bisogna imparare da questa crisi non solo a essere più sobri, ma a cambiare i nostri stili di vita. C’è troppa avidità, troppo attivismo, spacciato per meritocrazia. E non vasta trattare con dignità il povero, l’immigrato. Occorre liberarlo dal bisogno, gli si deve chiedere responsabilità e impegno. ei giovani non possono rimanere eterni adolescenti, dobbiamo dire loro che essere adulti è la cosa più bella, non glielo diciamo mai».
Il sogno?
«Un seminario per laici, non per modo di dire. Non uno di quei luoghi un po’ tetri dei nostri seminari per preti e qui ricordo quando io entrai in uno di quegli edifici e mia madre si nascose dietro una colonna piangendo. No, uno spazio d’incontro tra famiglie, educatori, volontari, missionari, persino politici. Preti e laici devono credere che camminare insieme è meglio. La Chiesa nei prossimi anni dovrà essere sempre più sinfonica, far crescere un laicato maturo e consapevole. Una Chiesa dai mille volti e dai mille campanili è una ricchezza non solo per la diocesi, ma anche per l’Italia».