Pubblichiamo il testo integrale dell’omelia del card. Camillo Ruini alla messa per il XXV del suo episcopato (Basilica di San Giovanni in Laterano, 21 giugno 2008).
Signori Cardinali, cari Fratelli nell’episcopato, Onorevoli Autorità, carissimi sacerdoti, diaconi, seminaristi, carissime religiose, e voi tutti fratelli e sorelle amati nel Signore, questa S. Messa di ringraziamento per i 25 anni del mio episcopato…, nella quale celebrano il loro Giubileo anche molti cari fratelli nel sacerdozio, giunge non molto tempo dopo quella celebrata in questa Basilica il 7 dicembre 2004, per il mio 50° di sacerdozio. Cercherò dunque di non ripetere ciò che ho detto in quella occasione e mi soffermerò piuttosto sui 17 anni e mezzo del mio ministero di Vicario del Santo Padre per la Diocesi di Roma.
Ho ricevuto un dono grandissimo da Giovanni Paolo II quando, il 17 gennaio 1991, egli mi ha nominato suo Vicario. Per esprimere questo dono non c’è di meglio che rileggere un brano della Lettera che egli mi scrisse in quella circostanza: “ho deciso di affidarLe… ciò che ho di più mio e di più caro: Roma apostolica, coi suoi incomparabili tesori di spiritualità cristiana e di tradizione cattolica; con le sue forze vive di sacerdoti, di comunità religiose, di laici impegnati; ma anche con le sue innumerevoli esperienze umane, con le sue certezze e le sue inquietudini, con le sue realizzazioni e le sue attese”. Questo dono grandissimo mi è stato confermato e rinnovato da Benedetto XVI, che oggi con straordinaria bontà ha voluto aggiungervi l’ulteriore dono della Lettera di cui è stata data lettura. All’uno e all’altro Successore di Pietro va dunque la mia personale totale gratitudine.
Ma in tutti questi anni un dono in qualche modo altrettanto grande l’ho ricevuto da Roma stessa, Roma Diocesi e Roma Città: questo dono l’ho compreso un poco per volta e sempre di più. Terminato il mio servizio di Cardinale Vicario confido di gustarlo e assaporarlo ancora meglio, ritornandovi negli anni che mi rimangono con la memoria e con la preghiera.
Come letture di questa S. Messa ho preferito non scegliere da me ma rimanere fedele al corso dell’anno liturgico. Mi trovo così a commentare un testo del Vangelo al quale non avrei pensato, ma che darà l’impronta a questa omelia. Dice Gesù ai suoi discepoli: “Non temete gli uomini,… non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto Colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna”. Pertanto, “Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sui tetti”. Un commento esistenziale a questo testo, da parte di un Vescovo, lo ha offerto Giovanni Paolo II nel suo libro Alzatevi, Andiamo!, nel capitolo intitolato “Dio e il coraggio”. Egli cita le parole pronunciate in tempi difficili dal Cardinale Primate di Polonia Stefan Wyszyński: “Per un Vescovo la mancanza di fortezza è l’inizio della sconfitta. Può continuare a essere apostolo? Per un apostolo, infatti, è essenziale la testimonianza resa alla Verità! E questo esige sempre la fortezza”, e ancora “La più grande mancanza dell’apostolo è la paura. A destare la paura è la mancanza di fiducia nella potenza del Maestro; è questa che opprime il cuore e stringe la gola”.
Personalmente non ho certo vissuto esperienze drammatiche come quelle dei Cardinali Stefan Wyszyński e Karol Wojtyła; tanto meno come quella del Profeta Geremia che abbiamo ascoltato nella prima lettura: “Sentivo le insinuazioni di molti: «Terrore all’intorno! Denunciatelo e lo denunceremo»”. Ogni Vescovo tuttavia, nel suo tempo e nelle sue situazioni di vita e di ministero, ha bisogno di almeno un poco di fortezza e anch’io ne ho avuto bisogno, a Reggio Emilia e poi qui a Roma. Mi permetto di soffermarmi su questo aspetto, del quale di solito si parla poco. Quando poi se ne parla si pensa subito alla fortezza o al coraggio rivolto per così dire “verso l’esterno”, soprattutto verso la pressione esercitata dalla “opinione pubblica”, così come questa è interpretata, e non di rado “costruita”, dai mezzi di comunicazione. E’ indispensabile, per un Vescovo, sottrarsi alla sudditanza nei confronti di questo genere di pressione e a tal fine è importante ricordare che la verità che ci è stata donata e affidata, quella verità che in ultima analisi è Cristo stesso, conta e “pesa” molto di più di qualsiasi opinione. In realtà, per me questo è stato, tutto sommato, un problema abbastanza lieve: come ho detto scherzosamente parlando ad alcuni Confratelli Vescovi quando pensavo che non ci fossero altri ascoltatori, “le pallottole di carta non fanno molta paura”. Difficile mi è stato, piuttosto, riuscire a congiungere, anche nel modo di esprimermi e di comunicare, la fermezza con l’amore.
L’esercizio della fortezza, da parte di un Vescovo, è comunque più spesso necessario, e anche più impegnativo, nel “governo” quotidiano della Diocesi, dove non si ha a che fare solo con le opinioni, ma con le persone. Qui le certezze sono più difficili, mentre più forte è il bisogno di rendere tangibile che quello che facciamo e decidiamo lo facciamo e decidiamo per amore, ricercando cioè il bene sia della comunità sia delle persone interessate. E’ questo, forse, il maggior peso quotidiano di un Vescovo, non dico la sua croce più grande – questa infatti sono i suoi personali peccati – ma la più “immediata”.
Un ultimo pensiero riguardo al coraggio del Vescovo ritorna alla fortezza nell’annuncio e nella testimonianza pubblica della fede. Sono stato assai aiutato e stimolato sotto questo profilo dal mio compito di Vicario del Santo Padre, in concreto dall’esempio che ho ricevuto da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI: in molte occasioni ho percepito quasi fisicamente che sarebbe stato ingiusto lasciarli soli. Già prima, quando non ero ancora Vescovo, ho avuto la stessa sensazione nei confronti di Paolo VI. Essere a fianco del Papa nell’annuncio e testimonianza della fede, specialmente quando questi sono scomodi e richiedono coraggio, è in realtà il compito di ogni Vescovo, un aspetto essenziale della collegialità episcopale. Mi permetto di dire che se tutto il Corpo episcopale fosse stato forte ed esplicito sotto questo profilo, varie difficoltà, nella Chiesa, sarebbero state meno gravi e che anche per il futuro questa può essere una via efficace per ridimensionarle e superarle.
Il ministero del Vescovo chiaramente non è fatto solo di coraggio: in concreto è molte cose, ma anzitutto è “amoris officium” (S. Agostino, In Evangelium Iohannis tractatus, 123,5), compito e dovere di amore. Questa sera, piuttosto che del poco amore che ho dato, vorrei parlare del grande amore che ho ricevuto dalla Chiesa e dalla Città di Roma, in concreto da tante persone da me conosciute o anche che direttamente non conoscevo. E’ questo un aiuto immenso, un immenso sostegno, che dobbiamo saper vedere. E’ più facile, infatti, fermarsi alle ostilità, o semplicemente alle tensioni, che non possono mancare, e non vedere abbastanza tutto il bene di cui un Vescovo è fatto oggetto, molto al di là delle proprie doti e dei meriti personali, semplicemente per l’ufficio che ricopre: un ufficio che, direi, “attira l’amore”. Questo amore si esprime anzitutto nella preghiera: voglio dire un grandissimo grazie per tutta la preghiera che mi ha accompagnato e sostenuto in questi anni! Ma si esprime anche nella solidarietà e nella collaborazione: ne ho avuta tanta, da molte parti.
Prima che per la collaborazione, devo però ringraziare di tutto cuore per il dono della grande fiducia che mi è stata accordata da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI: senza una tale fiducia il compito del Cardinale Vicario sarebbe davvero arduo e ben poco fruttuoso. Non mi è possibile nominare personalmente tutti coloro con i quali ho collaborato e ai quali sono grato. Mi limito, nella Diocesi di Roma, ai Vicegerenti Mons. Remigio Ragonesi, che ora è nella Casa del Padre, Mons. Cesare Nosiglia e Mons. Luigi Moretti, che porta adesso il peso di questo ufficio. Con i Vicegerenti ringrazio tutti i Vescovi Ausiliari, i miei due Segretari, Don Mauro e ora Don Nicola, e tutto lo staff della mia segreteria personale. Ringrazio Pierina, che rimarrà con me, e tutte le persone che in questi anni, insieme a lei, hanno reso confortevole la mia vita. Ringrazio di tutto cuore i sacerdoti, le religiose, i laici del Vicariato, i parroci, i vicari parrocchiali e tutti i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i laici impegnati nella pastorale e le loro molteplici aggregazioni. Un grazie speciale ai rettori dei seminari, ai loro collaboratori e ai seminaristi, che ho sempre considerato dei giovani amici.
Questa solidarietà e collaborazione è la comunione attuata in concreto nella Chiesa diocesana ed è una risorsa fondamentale della missione: alla base di essa c’è lo Spirito Santo, che vivifica e guida la Chiesa. Per parte mia ho fatto poco, certamente non abbastanza, per meritare la solidarietà che ho ricevuto, e ne chiedo scusa. Il contributo che ho cercato di dare è consistito soprattutto nel senso del dovere e quindi nell’assiduità al lavoro e nell’assumermi le mie responsabilità, sforzandomi di essere sincero e leale.
Devo però allargare il discorso, per dire un grazie grande e cordiale alle tante persone, cattolici e “laici”, nelle quali ho trovato amicizia, vicinanza e collaborazione anche al di fuori delle strutture ecclesiali. Per un Vescovo, come per ogni sacerdote, questi rapporti sono preziosi e doverosi, fanno parte a pieno titolo della nostra missione. Mi rammarico di aver avuto poco tempo per coltivarli e, se il Signore vorrà, vi dedicherò più tempo nel futuro.
Il rammarico più grande riguarda però la mia debolezza e mediocrità in quello che è il primo compito di ogni Vescovo: la preghiera. Quante volte ho ricevuto dalla gente richieste di preghiera, nella giusta convinzione e certezza che il Vescovo è anzitutto uomo di Dio e quindi uomo di preghiera. Specialmente di questa debolezza chiedo perdono e il mio primo proposito per il futuro è quello di porvi, con la grazia di Dio, in qualche modo rimedio.
La seconda lettura di questa S. Messa, dalla Lettera dell’Apostolo Paolo ai cristiani di Roma, è il testo “classico” riguardo al peccato originale presente in ciascuno di noi. Questo brano ci porta al cuore della storia della salvezza, ricordandoci che “come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato”, ma aggiungendo subito che “se… per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini”. Vorrei insistere su questo “molto di più” e su questo “in abbondanza”: essi, nel mistero dell’economia di salvezza, valgono sempre e valgono anche oggi. Il sacerdote, il Vescovo, il cristiano avverte giustamente il “regno del peccato” (Rom 6), avverte oggi la radicalità della sfida che è posta alla fede cristiana nei comportamenti e nel pensiero. Ne scaturisce facilmente la tentazione della sfiducia: questo nel nostro tempo è forse il pericolo più grande per la missione del Vescovo e della Chiesa. La Diocesi di Roma, e in essa il clero romano, per grazia di Dio mediamente giovane e ben preparato, le tante presenze vive religiose e laicali, devono sconfiggere questa tentazione, che è contraria alla speranza teologale, alla speranza cioè fondata sulla forza dell’amore che Dio ha per la famiglia umana.
La continuità più profonda tra i due Pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI sta forse proprio nella fiducia che questa tentazione e questa sfida radicale possono, anche storicamente, essere superate, anzitutto per la potenza salvifica di Dio, che è reale e storicamente incarnata: è questo il senso del messaggio dell’Enciclica Spe salvi. Quando sono ritornato a Roma dopo i lunghi anni del mio ministero a Reggio Emilia, portavo già dentro di me una simile convinzione, ma certamente il contatto con i due Papi mi ha molto fortificato e aiutato a capirla di più e a vederla come “storia in atto”, storia che si realizza nelle vicende quotidiane.
Il piccolo testamento che vorrei lasciare alla Diocesi di Roma è dunque questo: guardiamo alla grande sfida che oggi dobbiamo affrontare, rendiamocene conto, non nascondiamoci davanti a lei, cerchiamo di coglierla nella sua forza, spessore, pervasività, capacità di penetrazione, quella capacità e quell’attrattiva che essa esercita specialmente verso le nuove generazioni. Ma guardiamola con occhio disincantato e a sua volta penetrante, con l’occhio della fede, che è necessariamente diverso e anche più penetrante rispetto a uno sguardo soltanto umano. Con la luce della fede possiamo intuire infatti la realtà profonda dell’uomo, in cui Dio è presente per attirare a sé ed orientare a Cristo le persone e la storia. Oso dire che Dio continua ad attirare a sé in modo speciale questa nostra Chiesa e Città di Roma, come tante volte in questi anni ho potuto toccare con mano. Nel mio piccolo, se il Signore lo permetterà, vorrei continuare a lavorare, in una forma diversa, perché i romani e gli italiani di oggi sappiano guardare al mondo e alla vita con l’occhio della fede, e così non si affliggano “come gli altri che non hanno speranza” (1 Tess 4,13). Ma, molto al di là di quello che ciascuno di noi può fare, è questa la preghiera che ora insieme rivolgiamo al Dio amico dell’uomo.