"Non scandalizziamo mai con spese inutili ed eccessive". Tettamanzi ai suoi preti

tettamanzi.jpgRiportiamo il testo intregrale dell’omelia del cardinale Dionigi Tettamanzi al clero di Milano in occasione della festa di S. Carlo Borromeo, patrono della Diocesi più grande del mondo. Titolo “La povertà evangelica del presbitero al servizio della Chiesa“.
Carissimi, in questa solenne celebrazione sentiamo come particolarmente vicino a tutti noi san Carlo Borromeo… E’ presente con le sue spoglie mortali, ma ancor più con il dono della sua preghiera, con la luce della sua parola, con la forza del suo esempio. In lui troviamo, ci dice la liturgia, uno «specchio di vita» e un «modello di giustizia». E in questo specchio luminoso desidero oggi soffermarmi con voi, confratelli sacerdoti, a contemplare la povertà evangelica del Borromeo.San Carlo, luminoso esempio di povertà evangelica
Dalla storia conosciamo l’importanza e la ricchezza della sua famiglia, ma anche come san Carlo seppe rinunciare a molti dei privilegi che gli erano dovuti per mettersi al servizio della Chiesa, nel segno di una vera e grande libertà anche rispetto ai beni materiali.1. Penso alla drastica riduzione operata nella sua corte personale dopo la morte del fratello, con la rinuncia a molti dei domestici e dei cavalli a lui assegnati. Questi gesti, certo lontani dalla nostra sensibilità attuale, suscitarono scandalo nell’alta società romana del tempo: troppo severamente viveva quel cardinale nipote di un Papa!
Ma fu soprattutto divenendo sacerdote che san Carlo sentì vivo il desiderio di seguire il Signore nella via della povertà e dell’umiltà. Mi viene spontaneo guardare alla Basilica di Santa Prassede in Roma, dove ancora oggi è conservata la tavola utilizzata dal santo per sfamare i pellegrini che si recavano nella città eterna per l’anno santo del 1575. Testimoni del tempo ci riferiscono di avere visto in quei giorni il santo cardinale pellegrinare scalzo, come la gente più povera, dando un esempio di semplicità di vita che suscitò l’ammirazione, anzi l’imitazione degli altri cardinali e dello stesso Papa Gregorio XIII.
Una povertà, quella del Borromeo, intrecciata con la carità, con il dono delle sue cose e di se stesso ai tanti bisognosi che incontrava. Numerosissimi al riguardo sono gli esempi e gli atteggiamenti nella vita del santo, alcuni dei quali ci sono stati ricordati nella biografia proclamata durante questa liturgia. Basti una sola citazione tratta dall’elogio funebre fatto dal Panigarola: «Della ricchezza Carlo conobbe soltanto ciò che un cane riceve dai suoi padroni: acqua, pane, paglia».

2. Ma dove sta il segreto della povertà di san Carlo? Lo troviamo guardando al suo essere sacerdote. Egli infatti visse il distacco dai beni non solo come un momento della propria ascesi personale, ma anzitutto come atteggiamento sacerdotale, richiesto cioè per riversare sui fedeli a lui affidati – per usare di nuovo le parole della liturgia – quel «fuoco di carità immensa» che è proprio del «solerte pastore».
Del resto san Carlo ritornò più volte nelle sue omelie sul necessario legame che deve intercorrere tra il sacramento dell’ordine e la povertà, tra il sacerdozio e questa virtù, meglio questa beatitudine evangelica. Così, ad esempio, nell’omelia rivolta agli ordinandi il 24 maggio 1578, commentando il brano del Levitico (21,17-21) in cui si elencano i difetti che impediscono di celebrare il culto, l’arcivescovo vi legge la sobrietà di vita richiesta per diventare ed essere sacerdoti. Il sacerdote – dice – non deve assomigliare a quel «gobbo sulla schiena» che è «l’uomo intento solo alle occupazioni materiali», e neppure a quel «gobbo sul petto» che è «l’uomo che si inorgoglisce per la sua ambizione e la posizione raggiunta in questo mondo». Il Borromeo poi paragona le «piaghe purulente», di cui parla il testo sacro, all’azione devastante dell’avarizia: questa, dice testualmente, «insinuandosi all’inizio nell’animo con un dolce desiderio delle ricchezze, invade e contamina poi tutte le energie dell’anima in modo così virulento da finire per essere quel detestabile vizio che l’Apostolo Paolo definisce “idolatria”».

3. Impegnato nel realizzare il progetto di riforma del Concilio di Trento: rinnovare il clero per rinnovare tutta la Chiesa, san Carlo nei diversi Sinodi provinciali che si sono diffusi nelle diocesi dell’Italia del Nord si sofferma più volte sulla povertà di vita dei sacerdoti.
Così nelle Monitiones del quarto Sinodo provinciale del 1576, li esorta a vivere la povertà soprattutto nel modo concreto di esercitare il loro ministero verso i fedeli: «Non siete mercanti del mondo, non ministri di mammona, ma trafficanti di Cristo». E subito precisa l’attenzione dei sacerdoti circa l’uso dei beni ecclesiastici, dicendo: «distribuite i beni della Chiesa a coloro che sono le “viscere d’amore di Cristo”, e cioè ai poveri, ai pellegrini, alle vedove, ai fanciulli, ai sofferenti, ai carcerati». E aggiunge ancora di saper sacrificare sé stessi pur di provvedere al loro servizio ecclesiale: «frodando voi stessi del vitto, possiate ornare le vostre chiese e gli altari, rendere sempre ordinati i diversi luoghi bellamente ornati, procuratevi sacre suppellettili».

4. La Chiesa sorta da questo coraggioso progetto pastorale è quella comunità aperta alla carità che sotto san Carlo è diventata la Chiesa di Milano, con 24 associazioni benefiche che aiutavano circa 100.000 poveri e con ben 32 istituzioni, case od ospizi, destinati a provvedere nei modi più diversi ai bisognosi.
E così, se vogliamo seguire l’esempio di san Carlo, dobbiamo interrogarci anche noi oggi sul significato di una povertà evangelica posta al servizio di una Chiesa animata dalla carità. Una domanda, questa, che sollecita anzitutto noi sacerdoti, chiamati a vivere la povertà specifica del nostro ministero.
Certo, nella Chiesa tutti i fedeli sono chiamati alla povertà, sia pure in modi e gradi differenti tra loro, come avviene per il monaco o l’eremita o il laico sposato. Ma è altrettanto vero che al presbitero è donata come grazia e richiesta come impegno una forma propria di povertà, che peraltro riceve una luce più grande dal suo rimanere inserita nel cammino evangelico comune di tutti i fedeli: una infatti è la Chiesa, la Chiesa discepola del Cristo povero.

La povertà evangelica del presbitero: origine e significato
Soffermiamoci ora a considerare la povertà, partendo dal fatto che la nostra vita di sacerdoti è stata ed è segnata dallo sguardo d’amore di Gesù.

1. E’ uno sguardo che ci ha resi liberi per seguire il Signore, imitando così i primi discepoli che «lasciarono tutto e lo seguirono» (Luca 5,11).
E noi seguiamo Gesù, il buon Pastore, colui che «dà la vita per le pecore» (Giovanni 10,14). A questo dunque siamo chiamati: a fare della nostra vita un dono, con un atto di libertà che non calcola ciò che lascia, ma si stupisce per essere stato chiamato a tanto. In realtà, solo con il coraggio che nasce da una grande libertà interiore possiamo seguire il Signore e relativizzare tutto a Cristo, disponendoci anche ad essere poveri come lui volle esserlo (cfr. Filippesi 4,12-13).
Così manifestiamo chiaramente che solo in Cristo noi riponiamo tutta la nostra fiducia e speranza, solo per lui noi spendiamo la nostra vita. Non riconosciamo altro signore all’infuori di lui. Non viviamo l’affanno della ricerca di altre e diverse garanzie, perché solo la comunione con lui è la nostra vera e sovrabbondante sicurezza.
E così, come discepoli liberi e poveri, potremo aprirci e coinvolgerci pienamente ad accogliere la missione di annunciare il Vangelo.

2. E’ vero: il Vangelo non manifesta disistima e non chiede il rifiuto dei beni economici. Vuole però che questi siano sottoposti di continuo alla “signoria” di Dio e ai “bisogni” del prossimo: «Non potete servire a Dio e a mammona» (Matteo 6,24). Vanno allora ridimensionati questi beni: sono un mezzo, non un fine. Il loro scopo è di servire, non di asservirci! La loro funzione è di favorire relazioni umane improntate a giustizia e carità, non di permettere la soddisfazione egoistica dei propri desideri.
In una parola, la nostra povertà manifesta a tutti che siamo persone che dipendono in tutto e per tutto da Gesù, unico Signore e unico nostro tesoro!

3. Ma ci chiediamo: è facile tutto ciò? No, non è facile! Per questo abbiamo tutti bisogno di un cammino spirituale, di una costante vigilanza, e soprattutto di una grande apertura alla grazia di Dio, per la quale “nulla è impossibile” neppure fare in modo che un “ricco” entri nel regno di Dio (cfr. Marco 10,23-27). Ma, come l’esperienza ci insegna, se ci impegniamo a sciogliere il cuore dai legami dei beni materiali potremo sperimentare una gioia più profonda per la libertà guadagnata e potremo aprire uno spazio interiore nuovo che verrà colmato da una disponibilità più grande nel dono di noi stessi e delle nostre cose, sia nell’assumere il nostro ministero, sia nel rapporto con i nostri fedeli.
Il nostro vissuto sacerdotale diventerà così l’espressione di una vera carità pastorale. «Solo la povertà – scrive Giovanni Paolo II nell’esortazione Pastores dabo vobis – assicura al sacerdote la sua disponibilità ad essere mandato là dove la sua opera è più utile ed urgente, anche con sacrificio personale. È condizione e premessa indispensabile alla docilità dell’apostolo allo Spirito, che lo rende pronto ad “andare”, senza zavorre e senza legami, seguendo solo la volontà del Maestro» (n. 30).
E ancora: la povertà del presbitero potrà dire il suo essere pastore pieno di amore per il popolo di Dio. E’ una povertà tenera verso la sofferenza, sempre pronta a prestare o a donare, rifuggente da calcoli, generosa, tranquilla e gioiosa.

Alcuni atteggiamenti spirituali segno di autentica povertà
Un ulteriore passo vogliamo fare sulla povertà presbiterale: questa va considerata come una virtù non a sé stante, ma intimamente congiunta con i diversi valori ed esigenze della vita del prete, tutti confluenti nell’unica fondamentale dimensione del seguire Cristo nel suo donarsi per amore.

1. Dobbiamo allora parlare di una povertà che è tale perché è obbediente: è infatti condizione per essere disponibili a servire il Vangelo. Non è forse povertà l’accettare di rispondere alle molteplici richieste che ci vengono rivolte continuamente dai fedeli, senza frapporre come prioritarie le nostre esigenze personali? Non è povertà il lasciarci plasmare dallo stile della comunità cui siamo stati destinati, amando qualsiasi persona e qualsiasi luogo come l’ambito che il Signore ci affida per la nostra santificazione? Non è povertà l’accettare di stare in un luogo sapendo che «il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Matteo 8,20) ed essendo sempre disponibili a una nuova destinazione o a una nuova forma di servizio? Non è povertà accettare di vivere la sofferenza dell’età avanzata o della malattia o dell’incomprensione o del rifiuto come offerta d’amore per il bene della Chiesa e dell’umanità?

2. Dobbiamo anche parlare di una povertà che è tale perché, secondo lo stile di vita del presbitero nella nostra Chiesa latina, è innervata della castità celibataria. Non è, infatti, povertà l’accettare di vivere ogni legame umano con amore intenso e sincero, senza mai lasciarci condizionare da preferenze personali e interessi, che non sia la preferenza del Signore per i “piccoli”? Non è povertà il saperci appassionare delle relazioni che nascono dal ministero, per quanto possano essere limitate nel tempo, restando sempre disponibili a vivere relazioni nuove e differenti? Non è povertà l’accettare i momenti di solitudine o di fatica come occasioni per riscoprire la bellezza e la gioia del “rimanere nell’amore” di Cristo, lo Sposo della Chiesa e il Consolatore delle anime?

3. Dobbiamo anche chiederci se non è forma di debolezza spirituale uno stile di vita che cerca anzitutto la propria comodità, che si circonda di segni di benessere, che si conforma alle continue sollecitazioni di un contesto fortemente consumistico.
In questa prospettiva deve diventare più abituale il confronto con le condizioni di vita della gente, confronto che a volte è per noi sacerdoti motivo di un qualche imbarazzo. Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ci siamo sentiti affascinati dalla chiamata del Signore al radicalismo evangelico. Con una differenza: a noi preti i beni materiali (a volte anche quelli superflui) non mancano, mentre alla gente spesso manca il necessario.
Noi abitiamo in case che dicono la premura del popolo di Dio per assicurare un’abitazione dignitosa ai suoi preti, mentre tanta gente non riesce a trovare casa. Il nostro ministero ci garantisce di avere sempre un’occupazione e di ricevere il necessario per un dignitoso sostentamento; molti, invece, vivono di lavori precari e di retribuzioni inadeguate.
Carissimi confratelli, come preti ambrosiani da sempre noi siamo vicini alla gente. Continuiamo, partecipando agli stessi sentimenti di “compassione” di Cristo Gesù, a lasciarci commuovere dalla pesante condizione dei poveri, dai disagi e dai drammi delle famiglie.
Non scandalizziamo mai i poveri con spese inutili ed eccessive. La nostra vita sia sobria ed esemplare, così che possa diventare parola forte per ricordare ai ricchi le loro responsabilità, qualora si dimenticassero dei poveri.
La nostra dovrà essere parola profetica anche nel nostro tempo, teatro di tante ingiustizie e di una insopportabile, scandalosa disparità di condizioni. Ma la nostra parola suonerà vuota, incoerente e controproducente, se le nostre condizioni di vita strideranno con quel messaggio evangelico che siamo chiamati ad annunciare e testimoniare (cfr. Pastores dabo vobis, 30).

Uno stile di povertà nella vita delle comunità cristiane
C’è ancora un altro aspetto della povertà di noi presbiteri che non possiamo tralasciare: è quello che riguarda la nostra responsabilità nel gestire i beni materiali che sono della Chiesa e che la Chiesa ci affida. E’ una responsabilità da condividere in spirito di comunione ecclesiale con altri, anzitutto con fedeli laici competenti e preparati, in particolare con i membri dei vari consigli per gli affari economici.

1. In concreto occorre praticare esemplarmente la giustizia nella gestione dei beni della Chiesa, trattandoli non come patrimonio personale, ma come beni, appunto, della Chiesa, dei quali dobbiamo rendere conto a Dio e ai fratelli, soprattutto ai poveri (cfr. Pastores dabo vobis, 30). Così come occorre garantire la trasparenza nella loro gestione. Di qui l’adeguata informazione da dare ai fedeli, il rendere conto coscienzioso e onesto agli organismi competenti, l”attenzione alle esigenze della carità.
Come amministratori dei beni ecclesiastici, sia noi che i nostri collaboratori laici, siamo chiamati a destinarli esclusivamente ai fini che sono loro propri, indicati dal Concilio in questi tre: «l’organizzazione del culto divino, il dignitoso mantenimento del clero, il sostenimento delle opere di apostolato e di carità, specialmente in favore dei poveri» (Presbyterorum Ordinis, 17).
Solo così l’uso dei beni della Chiesa, specie nell’esigenza di una doverosa sobrietà, potrà garantire la credibilità e l’efficacia della nostra missione evangelizzatrice, come diceva Paolo VI: «L’indigenza della Chiesa, con la decorosa semplicità delle sue forme è un attestato di fedeltà evangelica, è la condizione, talvolta indispensabile, per dare credito alla propria missione, è un esercizio talvolta sovrumano di quella libertà di spirito, rispetto ai vincoli della ricchezza, che accresce la forza della missione dell’apostolato» (24 agosto 1968).

2. In questa prospettiva ecclesiale dobbiamo affrontare il problema della condivisione dei beni non solo tra le persone, ma anche tra gli enti. Non c’è solo una povertà del cristiano e del presbitero; c’è anche una povertà della comunità cristiana che deve esprimersi come condivisione.
Al riguardo siamo chiamati ad essere più convinti e determinati, meno lenti, consapevoli che un’equa ridistribuzione dei beni tra i diversi enti ecclesiastici rappresenta certamente un ideale, «ma un ideale normativo secondo la logica originaria e profonda della Chiesa, che è comunione: una comunione che si esprime non solo nel cuore, ma anche nelle opere, e queste nella loro molteplicità di forme» (cfr. intervento ai Consiglieri per gli Affari Economici delle parrocchie e agli Amministratori degli Enti, 28 aprile 2008).
Dovremmo allora riprendere i suggerimenti già emersi nel Consiglio presbiterale del 2005 e tradurli in iniziative concrete di solidarietà tra parrocchie, facendo riferimento all’ambito del decanato e alle possibilità-necessità legate alla pastorale d’insieme nelle unità e ancor più nelle comunità pastorali.
In realtà, già le sperimentazioni in atto circa il sostentamento condiviso dei ministri incaricati per la comunità pastorale, fino alla creazione di forme di “cassa comune” tra parrocchie e all’introduzione della figura dell’economo della comunità pastorale e del Consiglio unitario per gli Affari Economici, costituiscono una prima realizzazione concreta ed esemplare di una condivisione economica tra parrocchie. Senza peraltro restringerci alle nostre comunità, ma rimanendo aperti alla solidarietà con le comunità cristiane del mondo missionario.

Conclusione
Concludo rimandando al testo che verrà inviato a tutti i sacerdoti e che affronta altri aspetti concreti e puntuali della povertà evangelica del presbitero. Come ogni realtà spirituale e morale, questa povertà si radica in una scelta fondamentale di vita; ma, a sua volta, questa scelta esige di essere confermata e maturata attraverso le scelte concrete della vita d’ogni giorno.
Si tratta, più precisamente, di scelte molto varie, che hanno come oggetto gesti importanti e gesti umili, impegni gravi e impegni piccoli. Nella linea del vissuto quotidiano il testo che avrete tra mani vi presenterà alcune forme di uno stile presbiterale di povertà, che riguardano, tra l’altro, il sostentamento del clero, la cura della casa, la condivisione dei beni nel presbiterio, il testamento.
Carissimi, la testimonianza di san Carlo, le sue scelte coraggiose e alternative alla logica mondana, il suo vigore nel perseguire il rinnovamento della vita ecclesiale, siano per tutti noi di incoraggiamento e di richiamo a quella povertà evangelica a cui siamo chiamati come sacerdoti.
Mentre vi ringrazio per l’esempio che mi date anche in questo campo spirituale e pastorale, rinnovo per ciascuno di voi le parole di augurio e di benedizione che Paolo VI ha rivolto alla Chiesa: camminate, poveri, cioè liberi, forti, amorosi verso Cristo! (Pensiero alla morte).

+ Dionigi card. Tettamanzi
Arcivescovo di Milano

Solennità di san Carlo Borromeo
Omelia
Milano-Duomo, 4 novembre 2008