“La preghiera non sia espressione del nostro egoismo”. Il Papa ai seminaristi del Seminario Romano

seminaristiromano.JPGIl cristianesimo non consiste nel rispettare delle norme esteriori quanto nel penetrare il mistero di Dio, che si è sacrificato gratuitamente ed ha sofferto per amore, e modellare su di esso il nostro agire. E’ quanto ha detto, questo… venerdì sera, Benedetto XVI incontrandosi nella Cappella del Seminario Romano Maggiore con i circa 200 alunni seminaristi della diocesi di Roma – accompagnati dai loro rettori, direttori spirituali ed educatori – e con i ragazzi dell’anno propedeutico che stano verificando la loro vocazione e la possibilità di entrare in seminario l’anno prossimo. La tradizione vuole che in occasione della Festa della Patrona dell’istituto – la Madonna della Fiducia, che viene celebrata il 13 febbraio – il Pontefice incontri i seminaristi e si trattenga con loro a cena. Quest’anno, per la prima volta, si sono raccolti insieme al Seminario Romano per incontrare il Papa tutti i seminaristi della diocesi di Roma, compresi quelli quindi del Pontificio Seminario Romano Minore, del Collegio diocesano “Redemptoris Mater”, dell’Almo Collegio Capranica e del Seminario della Madonna del Divino Amore.Prima dell’incontro il Pontefice, accompagnato dal Rettore del Seminario Romano Maggiore, mons. Giovanni Tani, e dal Cardinale Vicario Agostino Vallini, si è raccolto per qualche istante in preghiera.

A fare gli onori di casa è stato mons. Tani che in un breve indirizzo di saluto ha ricordato che “da anni, precisamente dal 1993, in occasione del Sinodo Romano è il Papa che ordina insieme tutti i presbiteri della sua diocesi. In questi ultimi anni si sono aggiunti altri momenti comunitari vissuti da tuti i seminaristi di Roma”.

“Di particolare importanza è la settimana di settembre durante la quale i seminaristi dei 4 seminari maggiori vivono insieme – ha continuato -. Innanzitutto, per conoscersi e poi per riflettere e confrontarsi su temi di formazione al presbiterato e su aspetti della vita della diocesi di Roma”.

“Viviamo con gioia e trepidazione questo momento, Santità, durante il quale lei come primo nostro formatore ci aiuterà ad ascoltare la Parola del Signore e a camminare nella sua volontà”, ha poi terminato.

Dio, radice della sua vigna

Subito dopo il Papa ha tenuto la lectio divina incentrata sulla parabola della vite e dei tralci (Gv 15,1-8), che ben si colloca nell’Anno sacerdotale in corso, perché “parla indirettamente ma profondamente del sacramento, della chiamata, dello stare nella vigna del Signore e di essere servitore del suo mistero”.

La vite – ha spiegato il Pontefice – è una immagine veterotestamentaria che serve a indicare il Popolo di Dio: “Dio ha piantato una vite in questo mondo. Dio ha coltivato questa vite, la sua vigna, protetto questa sua vigna”.

Allo stesso tempo, ha continuato, “questa immagine della vite, della vigna ha un significato sponsale ed è espressione del fatto che Dio cerca l’amore della sua creatura, che vuole entrare in una relazione di amore, in una relazione sponsale con il mondo tramite il Popolo da lui eletto”.

Tuttavia, ha commentato il Santo Padre, “la storia concreta è una storia di infedeltà” che invece di “uva preziosa” ha generato “solo piccole cose immangiabili”.

Infatti, “questa unità, questa unione senza condizione tra uomo e Dio” non si è tramutata “nella comunione dell’amore”. Al contrario, “l’uomo si ritira in se stesso, vuole avere se stesso, vuole avere Dio per sé, vuole avere il mondo per sé. E così la vigna viene devastata” e “diventa un deserto”.

Ma “Dio – ha continuato il Santo Padre – si fa uomo e diventa egli stesso così radice della vite” e “così la vite è indistruttibile poiché Dio stesso si è impiantato in questa terra”.

Ecco dunque che “il cristianesimo non è un moralismo. Non siamo noi che dobbiamo fare quanto Dio si aspetta dal mondo”, perché in realtà “dobbiamo, innanzitutto, entrare in questo mistero ontologico in cui Dio si dà”.

Dobbiamo “stare in Lui”, identificarci con Lui, essere “nobilitati nel suo sangue” per “agire con Cristo”, perché – ha spiegato il Papa – “l’etica è conseguenza dell’essere” e “l’essere precede l’agire”. “Non è più una obbedienza, una cosa esteriore ma è realizzazione del dono del nuovo essere”.

Vivere nella creatività dell’amore di Cristo

Successivamente il Papa ha ricordato l’invito rivolto da Gesù agli apostoli nel contesto dell’Ultima Cena: “amatevi come io vi ho amati”, commentando che quella qui espressa è “una radicalizzazione dell’amore del prossimo a imitazione del Cristo”.

“Ma anche qui la vera novità non è quanto facciamo noi, la vera novità è quanto ha fatto il Signore. Il Signore ci ha dato se stesso”, ci “ha dato la vera novità di essere membri nel suo Corpo”.

E quindi, “la nuova Legge non è un altro mandato più difficile degli altri. La nuova Legge è un dono”, è “la presenza dello Spirito Santo datoci nel sacramento del Battesimo, nella Cresima e datoci ogni giorno nella Santissima Eucaristia”.

“La novità quindi è che Dio si è fatto conoscere – ha aggiunto -, che Dio si è mostrato, che Dio non è più il Dio ignoto, cercato ma non trovato o solo indovinato da lontano”. “Dio si è fatto vedere nel volto di Cristo”, “si è mostrato nella sua totale realtà, ha mostrato che è ragione e amore” e così ci ha resi suoi amici.

“Purtroppo ancora oggi – ha osservato il Pontefice – molti vivono lontani da Cristo, non conoscono il suo volto e così l’eterna tentazione del dualismo si rinnova sempre e forse non c’è solo un principio buono ma anche un principio del male”, così che a dominare è la visione di un mondo in balia di “due realtà ugualmente forti”.

“Anche nella teologia cattolica – ha poi lamentato – si diffonde adesso questa tesi che Dio non sarebbe onnipotente”. Si tenta cioè una sorta di “apologia di Dio”, secondo cui Dio “non sarebbe responsabile per il male che troviamo ampiamente nel mondo”.

“Ma che povera apologia: un Dio non onnipotente”. “E come potremmo affidarci a questo Dio, come potremmo essere sicuri nel suo amore se questo amore finisce dove comincia il potere del male?”, si è domandato.

“Ma Dio non è più sconosciuto: nel volto del Cristo crocifisso vediamo Dio e vediamo la vera onnipotenza, non il mito dell’onnipotenza”, quel mito alimentato dagli uomini che concepiscono la potenza come “capacità di distruggere, di far male”.

Al contrario, ha spiegato il Papa, “la vera onnipotenza è amare fino al punto che Dio può soffrire” per noi.

Ecco dunque che la stessa vera giustizia si rivela non più come una “obbedienza ad alcune norme” ma come “l’amore creativo che trova di per sé la ricchezza e l’abbondanza del bene”; come il “vivere nella creatività dell’amore con Cristo e in Cristo”, di un amore impregnato di “dinamismo”.

Pregare come processo di purificazione

Il Papa è quindi passato a parlare del valore della preghiera e dell’importanza di invocare da Dio “il dono divino”, “la grande realtà”, “perché ci dia il suo Spirito così che possiamo rispondere alle esigenze della vita e aiutare gli altri nelle loro sofferenze”.

“E’ giusto pregare Dio anche per le cose piccole della nostra vita di ogni giorno – ha precisato il Pontefice – ma allo stesso tempo il pregare è un cammino, direi una scala: dobbiamo sempre più imparare le cose che possiamo pregare e le cose che non vanno pregate perché sono espressione del mio egoismo” o della “mia superbia”.

In questo modo, pregare “diventa un processo di purificazione dei nostri pensieri, dei nostri desideri”.

“Rimanere in Cristo è un processo di lenta purificazione, di liberazione da me stesso”, un “cammino vero” che si apre alla gioia e che è caratterizzato da “un sottofondo sacramentale”.

“Così – ha continuato – possiamo imparare che Dio risponde alle nostre preghiere”, e spesso “le corregge, le trasforma, le guida perché siamo finalmente e realmente rami del suo Figlio, della ‘vite vera’, membri del suo Corpo”.

“Ringraziamo Dio per la grandezza del suo amore – ha quindi concluso -. Preghiamo perché ci aiuti a crescere nel suo amore e a rimanere realmente nel suo amore”.