Editoriale. Verso la Giornata del Malato. Il valore aggiunto della sofferenza

Editoriale. Sono capaci di «saper soffrire» gli uomini e le donne di oggi, i nostri giovani? Chi insegna loro a gestire, capire e a saper stare nel tempo del dolore che la vita riserva, senza esclusione per nessuno? La prossima Giornata mondiale del Malato (11 febbraio 2011, da titolo “Dalle sue piaghe siete stati guariti – 1 Pt 2,24)” è un invito a riflettere sulla dimensione che fa parte della vita: la malattia, il dolore, la sofferenza. Cambia il termine, non il contenuto. È una realtà molto ampia, quella della sofferenza e della malattia. Farò solo alcuni accenni.
La sofferenza nasce con l’uomo: per la vita che viene al mondo e per la madre che soffre dolori. La sofferenza si fa “ultima parola” nella vita dell’uomo. Non dobbiamo lasciarci andare al pessimismo ma saper cogliere il positivo che la sofferenza insegna.

Lo spunto ci viene offerto dai social network (Facebook, Twitter, MySpace, hi5, ecc). La ricerca di nuove amicizie, l’accumulare contatti su contatti crea una realtà amplificata, ampliata, come se la realtà quotidiana non fosse più sufficiente. Il bisogno di settecento contatti che “rende in automatico amici di tutti” (e di nessuno)! La sofferenza, invece, riporta l’uomo alla realtà quotidiana, quella reale, di tutti i giorni, dove non si può “ignorare o accettare” come la richiesta di amicizia. La si riceve. Chiede di agire, reagire. Ma come? Qui si coglie la differenza. C’è una duplice tendenza, sempre più visibile, a spettacolarizzare il dolore oppure a chiuderlo dentro le mura domestiche, vedendosi costretti a cambiare le relazioni interpersonali quotidiane. Il dolore è certamente intimo e privato, ma l’insegnamento che ne deriva è per tutti. Quale bene si riceve da chi sta male e sta morendo? Tanto.

Senza sofferenza non si matura? Non solo. C’è dell’altro: è vita un’esistenza che rende estranea la sofferenza? L’educare alla vita buona del Vangelo, pertanto, passa anche per le piaghe del dolore e dei suoi tanti volti. Educare alla sofferenza vuol dire, per i genitori, aiutare i figli a saper affrontare la malattia, il dolore e la sofferenza che incontrano nella vita, altrimenti saranno uomini e donne impoveriti e più fragili. Quei necessari anticorpi che nessuna realtà educativa può offrire, ma provengono solo dalla vita, i giovani li apprendono da un saggio e sano accompagnamento nel quotidiano, dove malattia e dolore si fanno piazzole di senso, positive soste per ricomprendersi e riavvolgere la vita mediante l’arte dell’umiltà, della gratitudine.
Un amore tra fidanzati e in una coppia di sposi riceve beneficio – o meno – dalla forza che solo il frutto della malattia e del dolore sono capaci di far germogliare. È quel frutto unico, piccolo e grande nel contempo, che ciascuno coglie nel suo campo. Il dolore, allora, può guarire o uccidere, isolare o rafforzare l’amicizia.

G. R.