“Il 2 novembre ai poveri che passavano per le vie della città si offriva un pasto”. Omelia di Paolo VI in occasione del ricordo dei defunti

La celebrazione di questa Santa Messa ci trova concordi in un duplice pensiero: quello del suffragio per i nostri Defunti, e quello della nostra fede nella vita futura. Se il primo pensiero ci ricorda la pietà che dobbiamo avere verso coloro che ci hanno preceduto “cum signo fidei et dormiunt in somno pacis“, e ci rende solleciti del loro bene, il secondo pensiero risulta piuttosto rivolto al nostro bene, al conseguimento di quella saggezza che un cristiano sa derivare dal mistero della morte.

Abbiamo infatti pregato perché risplenda ai nostri Morti la luce della vita eterna, e preghiamo ora perché il riflesso di quella stessa luce rischiari la scena della vita presente, e ricordi a noi tutti l’immortalità di cui Iddio, concedendo a noi il dono dell’esistenza naturale, ha dotato la nostra anima. E questo un pensiero fondamentale della concezione cristiana della vita, pensiero che si annebbia e si oscura in coloro che non hanno la fortuna della fede, e che noi credenti dobbiamo invece tenere acceso nella nostra coscienza, e accettarne la chiarezza ch’esso vi porta, tremenda e consolante. Tremenda, perché la certezza della vita futura modifica i nostri giudizi sul valore delle cose e degli avvenimenti della nostra esperienza temporale, e ci ammonisce circa l’inevitabile responsabilità di ogni nostro atto rispetto al futuro giudizio di Dio. “Che cosa giova mai all’uomo, dice il Signore, guadagnare tutto il mondo, se poi perde l’anima sua?” (Matth. 16, 26). Ed aggiunge: “Io vi dico che nel giorno del giudizio gli uomini dovranno rendere conto d’ogni parola oziosa, che avranno detta” (Matth. 12, 36). Consolante, perché la certezza della vita futura significa la vittoria sulla morte: questo fatale e pauroso avvenimento che mette fine al nostro soggiorno nel tempo non sopprime in realtà la nostra esistenza; esso non è che un suo penoso episodio, al quale succede, per noi cristiani, un’immensa, una dolcissima speranza, quella dell’incontro con Cristo e della nostra partecipazione alla pienezza beata ed eterna della sua vita divina.

Sono pensieri grandi, Fratelli e figli carissimi, ai quali oggi la Chiesa in modo particolare ci invita ed ai quali sempre ci educa, perché sono le verità supreme, che riguardano il nostro essere ed il nostro destino. Ora, che tali verità noi abbiamo ricordate a nostro spirituale vantaggio, possiamo derivarne i voti, con cui desideriamo rendere proficua e felice la vostra presenza a questa celebrazione. I nostri voti sono infatti rivolti al Signore perché renda sempre luminosa ed operante in noi la fede e l’attesa dell’eterna vita; perché ci renda capaci di bene usare delle cose e delle esperienze di questo mondo, tenendone libero il nostro cuore, che dev’essere piuttosto orientato al mondo futuro; e perché conforti di sicure e soavi speranze gli animi di coloro che piangono per la morte di qualche persona cara.

V’è poi altro e più solenne impegno. Per chi ha l’inestimabile sorte di possedere la fede, di essere cristiano si impone, verso i defunti, un atto di carità. Non solo la memoria, la riconoscenza, ma proprio una profonda, inesauribile carità. E un vincolo sacro, obbligante. Se noi sapessimo quanti ci furono cari e sono stati i nostri benefattori hanno ora bisogno di noi, di aiuto fraterno, chi resterebbe inerte, insensibile? Ebbene questa implorante, silenziosa, ma reale necessità viene quest’oggi, attraverso la Liturgia della Chiesa, a premere sopra le nostre anime, sopra i nostri cuori. Sono i nostri defunti a dirci che noi possiamo ancora fare qualche cosa per loro e che forse – come misterioso e grande e commovente è questo ” forse “! essi sono nella attesa; hanno bisogno della nostra comunione di spirito, di generosa, ardente carità per entrare nella gloria del Signore. La Chiesa ci insegna la verità di uno stato di penosa e anelante vigilia dei trapassati. La luce di Dio non si è ancora accesa per loro, poiché devono ancora diventare degni di sì eccelso dono. Perciò la nostra carità e la ineffabile, arcana comunione, che tuttora ci avvince a quelle dilette anime, può far giungere ad esse il tributo della nostra misericordia, solidarietà e pietà. Negheremo noi questo dono? Il nostro spirito deve traboccare di sollecitudine, di sante industrie, ed elevare ininterrotta preghiera, specie se riflettiamo che i nostri morti possono, a loro volta, essere in qualche modo utili a noi proprio per la stessa circolazione di carità, di cui ci dà nozione e certezza la Chiesa. Di qui l’affetto per gli scomparsi, la cura delle tombe, dei cimiteri; soprattutto, il continuo e meritorio suffragio a vantaggio dei nostri cari, e di quanti altri attendono il premio eterno.

Infine occorre anche considerare un altro aspetto, che si manifesta evidente quando visitiamo questi luoghi di silenzio e di riposo. E cioè: i defunti ci insegnano l’alto valore della vita presente, e quel che di essa ci segue. Le loro spoglie parlano della fragilità e della precarietà del passaggio nel tempo, mentre il ricordo delle loro persone, dei meriti, della bontà dimostrataci, e segnatamente della loro anima immortale ci confermano quali sono i beni che noi anche nella vita di quaggiù dobbiamo, secondo la lezione e gli esempi dati, maggiormente apprezzare. E che faremo allora? che cosa daremo ai nostri defunti per soddisfare al debito di religiosa pietà, di misericordia e di solidarietà cristiana?

Lo sappiamo bene, e vi è stato già accennato. La preghiera innanzi tutto, che, quale arco sopra la vita nel tempo, arriva al Signore e ottiene ai nostri defunti la misericordia Sua. Nelle nostre case antiche vigeva una significativa usanza: offrire un pranzo, il 2 novembre, ai poveri che passavano per le vie della città, ed esso era appunto denominato “il bene dei morti”. Molte forme può assumere questo dono. Nessuno rimanga chiuso ed insensibile; procuri ciascuno che la fraterna solidarietà esercitata giovi alla nostra anima innanzitutto, e sia di esempio per i nostri fratelli, ma soprattutto arrechi suffragio e consolazione e, Dio voglia, la gloria eterna per i nostri morti.

(omelia del 2 novembre 1963)