“Scoprire che la sofferenza è una risorsa”: è la conclusione, raggiunta “dopo tanti pianti di notte”, a cui è arrivato mons. Domenico Sigalini, vescovo di Palestrina e assistente ecclesiastico generale dell’Azione cattolica italiana, reduce da un grave incidente in montagna, capitato lo scorso settembre, che ha messo in grave pericolo la sua vita. Dopo due mesi di ospedale e di cure intensive mons. Sigalini è tornato nella sua diocesi e ha ripreso la sua attività pastorale.
Mons. Sigalini nella Lettera di papa Benedetto XVI alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione, del 2008, c’è un passaggio sul tema della sofferenza come “verità della nostra vita”: è un’affermazione che può spaventare, non crede?
“Il problema della sofferenza, come dice il papa, è un problema di grande importanza per la vita di tutti gli uomini, perché prima o poi la si incontra. Il dolore ci fa sperimentare la limitatezza di tutta la nostra esistenza e consistenza: il problema è vedere se questa sofferenza è un castigo, è frutto di un incidente, è un malanno che ti capita, che sarebbe stato meglio che non ci fosse, è una maledizione o se invece, come è successo a me, è scoprire, dopo tanti pianti di notte, che è una risorsa. Prima dell’incidente ne avevo parlato in qualche omelia, ne avevo ragionato anche con i malati, ma quando lo provi sulla tua persona allora questa verità ti si incarna dentro e diventa veramente una profondità della tua vita”.
Se non “bisogna tenere al riparo i più giovani da ogni difficoltà ed esperienza del dolore”, come dice Benedetto XVI, che cosa si deve fare per educarli?
“Se uno capisce male la frase, allora potrebbe dire che i giovani bisogna farli patire. Occorre invece che le persone, i ragazzi in particolare, vengano a contatto con umiltà, con tutta questa sofferenza, che adesso si tenta di nascondere. Quando ero bambino andavo con il prete a portare l’Eucaristia ai malati e questo gesto ci metteva a contatto con il moribondo e nessuno si spaventava, perché la vita è così, c’è un momento in cui si parte, c’è la sofferenza, e tutto questo fa parte dell’esistenza. Dobbiamo aiutare un giovane a misurarsi con i propri limiti, con la propria insufficienza: ho fatto tanti viaggi a Lourdes con l’Unitalsi e ho visto tanti giovani che sono vicini ai malati gravi, addirittura si pagano il viaggio. A volte i ragazzi sono insoddisfatti della vita, ma mai si pentono di aver assistito una persona malata, che è capace di trasmettere loro la forza della sua convinzione di voler vivere e conserva dentro di sé dei valori forti nonostante la sofferenza.
L’esperienza che ha vissuto l’ha cambiata come persona e come pastore?
Dopo i 15 metri di caduta che ho fatto sono arrivato all’ospedale con il cuore fermo, e poi ha avuto tutta una serie di complicazioni: quando ho cominciato a capire che cosa stava succedendo dentro di me mi sono ribellato a Dio, mi sono domandato perché, non ho fatto come Giobbe che ha detto ‘il Signore ha dato, il Signore ha tolto’. Poi lentamente mi sono rivolto al Crocifisso e ho capito quanto importante è per l’uomo riuscire, attraverso il dolore, a conquistare una dedizione ancora più profonda alla propria umanità e direi anche all’esperienza di Dio. Il dolore che ho provato mi ha fatto capire, per esempio, cosa vuol dire la solidarietà, non potersi muovere e avere bisogno di tutti per poter cominciare a sperare e a vivere, e questo, già di per sé, è stato un regalo. E poi l’esperienza di fede più bella è quella di unire, con molta consapevolezza della nullità che siamo, la nostra sofferenza con quella di Gesù Cristo. Nella vita cristiana non c’è l’equazione hai fatto bene, un premio, hai fatto male, un castigo, nella vita cristiana noi dobbiamo compiere ancora maggior bene perché il male è troppo: Gesù Cristo era innocente e ha patito perché questo male fosse distrutto e anche noi abbiamo questa vocazione a portare avanti la sofferenza perché questo mondo diventi migliore.
Di fronte al dolore e alla sofferenza, e alla necessità di dare sollievo ma anche senso a queste dimensioni della vita, qual è il ruolo della comunità cristiana?
La comunità cristiana deve sempre mettere la debolezza, la fragilità e la malattia al centro, e bisogna che abbia il coraggio di ridurre le sue prospettive di efficienza a misura delle persone e dei più deboli. Stare accanto ai malati e ancora di più fare l’esperienza di passare due mesi immobile in ospedale mi ha fatto capire quanto è importate l’accoglienza, a volte basta anche un sorriso, e l’attenzione ai sofferenti, alle loro esigenze e ai loro bisogni più veri.
(fonte Sir)