I dati citati – mi pare – confermano la bontà dell’ipotesi di uno scollamento della trasmissione della fede cristiana tra le generazioni e quindi dell’ipotesi che i nostri ventenni e trentenni siano la prima generazione incredula dell’Occidente: una generazione che non vive contro il Dio e la Chiesa di Gesù, ma senza il Dio e la Chiesa di Gesù e vive addirittura anche la propria ricerca di spiritualità senza questo Dio e senza questa Chiesa. E non perché non l’abbia conosciuta, la Chiesa, ma perché a questa generazione non è stata trasmessa, da parte della famiglia d’origine, la testimonianza del legame tra vangelo e vita buona. Figli di genitori, dunque, che non hanno dato più spazio alla cura della loro fede: hanno continuato a chiedere i sacramenti della fede, ma senza fede nei sacramenti, hanno portato i figli in Chiesa, ma non hanno portato la Chiesa ai loro figli, hanno favorito l’ora di religione ma hanno ridotto la religione a una semplice questione di un’ora. Hanno chiesto ai loro piccoli di pregare e di andare a Messa, ma di loro neppure l’ombra, in Chiesa.
Hanno imposto, questi adulti, una divergenza netta tra le istruzioni per vivere e quelle per credere, una divergenza che ha avallato l’idea che la frequentazione della vita in parrocchia e all’oratorio e pure la scuola di religione fosse un semplice passo obbligato per l’ingresso nella società degli adulti e tra gli adulti della società.
Più semplicemente: se Dio non è importante per mio padre e per mia madre, non lo può essere per me. Se mio padre e mia madre non pregano, la fede non c’entra con la vita.
I genitori insomma hanno fatto passare l’idea che Dio è un problema dei preti, dei vescovi, della Chiesa. È ora di dirci tutta la verità: il dio degli adulti si chiama giovinezza! Ed è un dio che ai giovani non serve.
Questo spiega il paradosso delle indagini: giovani che si sentono estranei alla fede dopo anni di parrocchia e che oggi si sentono in ricerca ma non ritengono la Chiesa competente al riguardo.
Colpisce molto una recente osservazione di Papa Benedetto XVI ai giovani: egli ha raccomandato loro di «essere più profondamente radicati nella fede dei [loro] genitori» (pref. a Youcat).
Dunque: è finito il catecumenato familiare, cioè quella silenziosa ma efficace opera di testimonianza della famiglia, che la nostra azione pastorale normalmente presuppone. E per questo noi non siamo attrezzati per persone estranee alla fede, al massimo riusciamo a pensare al “credente non praticante”; che è un vero ossimoro.
In più dobbiamo ricordare che esiste una fetta non piccola di cultura contemporanea che non solo afferma che Dio non c’entra con la vita, ma che si ostina nel provare a dimostrare che Dio è contro la vita, è contro la felicità, è contro l’umanità.
Da qui un triangolo davvero terribile: i giovani a casa hanno imparato una vita e un mondo vita senza Dio, nella cultura diffusa ricevono l’idea che Dio è contro la vita e contro la felicità umana, quando infine vengono in Chiesa, da una parte trovano pochi adulti felici credenti e dall’altra, poiché per noi loro sono già del tutto credenti (non praticanti, ovviamente), li riempiamo di istruzioni morali, di precetti e di verità da sapere, che però essi non sanno come raccordare con la loro esistenza. E quindi se ne vanno.
Qui mi pare si trovi un dato che la bilancia segnala in modo netto: l’impostazione del nostro sistema pastorale “produce” sempre meno credenti e sempre più giovani estranei all’esperienza religiosa cattolica.
Questo pone sul tavolo una domanda molto urgente: quale pastorale deve essere messa all’opera per ventenni e trentenni con un alto tasso di estraneità alla fede cristiana? Ovvero: non possiamo più ritenere che la questione dei giovani – di questi giovani – sia tema di competenza esclusiva di un settore della pastorale, vuoi pure giovanile.