Ravvivare, custodire, non trascurare il dono spirituale ricevuto

2013-03-28 10.38.15Giovedì 11 giugno si è tenuto il Ritiro del Clero. Riportiamo, di seguito, il testo della riflessione del Vescovo Armando.

Matteo 10,7-13

“…né due tuniche, né sandali, né bastone, perché chi lavora ha diritto al suo nutrimento”

Si dà e si riceve, gratuitamente.

Dopo aver affidato agli apostoli il cosa fare (parole e opere di potenza), Gesù offre anche il suggerimento utile a come farlo. Suggerisce lo stile che Dio manifesta con il suo operare: quello del dono. Presenta così la gratuità quale movente della missione: “gratis avete ricevuto, gratis date”. Alla gratuità che esclude attese e contraccambio va collegato l’abbandono alla provvidenza.

L’unica predica che il mondo accetta è strutturata su questi verbi: camminare, predicare, guarire. Se non si cammina le nostre parole non sono credibili perché sono stantie. Se non si parla il messaggio rischia di rimanere ostaggio del “non detto”. Se le nostre parole non si mescolano con la carità, con il fare per i poveri, con chi è ostaggio di malattie e di male, allora è solo esercizio di retorica.

L’evangelizzazione che conta è gratuita. Le imprese pastorali non funzionano perché hanno budget economici che contano.

Se applicassimo questo vangelo alle nostre parrocchie, alle nostre comunità, forse ci libereremmo di una buona dose di frustrazione e cammineremmo più spediti e se qualcuno poi non vi accoglie e non dà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dei vostri piedi”.

 

La vita e la formazione permanente dei presbiteri”

Ravvivare, custodire, non trascurare il dono spirituale ricevuto con l’imposizione delle mani ( 1 Tm 4,14; 2 Tm 1,6)

Papa Francesco ai vescovi nominati nel corso dell’anno, il 18 settembre 2014, così diceva: “Ci sono tanti preti che non cercano più dove abita il Signore, o che dimorano in altre latitudini esistenziali, alcuni nei bassifondi. Altri, dimentichi della paternità episcopale o magari stanchi di cercarla invano, ora vivono come se non ci fossero più padri o si illudono di non averne bisogno”.

Una immagine del prete declinata in forma plurale. Occorre avviare in modo realistico ed efficace processi ed esercizi di comunione fraterna, che sono la regola fondamentale di ogni movimento di riforma del clero.

I riti esplicativi di una vita fraterna capace di ricuperare il valore dei gesti feriali: la correzione fraterna è una delle opere di misericordia spirituale meno praticate.

“Nella Chiesa – scriveva Yves Congar nel libro dal titolo Vera e falsa riforma nella chiesa – ogni processo di rinnovamento domanda una lealtà, una purezza e una trasparenza che si conquistano e si affermano molto più facilmente quando gli uomini si rendono testimonianza e si aiutano, fraternamente, gli uni gli altri. Una vita comune e fraterna svolge, in maniera immediata e come su scala ridotta, il ruolo di mutuo controllo, di rettificazione, di complementarietà”. Il dovere di “ricentrasi” sulla vita fraterna – autentico banco di prova della formazione permanente – non risponde ad una esigenza puramente aggregativa o gestionale, imposta dalle unità pastorali – uno dei principali tentativi in atto per intrecciare in maniera feconda la “pastorale di insieme” -, ma ad una logica sinodale e missionaria che ha una radice sacramentale. Occorre scrivere una nuova pagina di geografia pastorale, una pagina inedita di vita pastorale segnata da uno stile conviviale.

“Si deve infatti rendere evidente che ogni destinazione per un incarico ministeriale non è l’attribuzione di un compito da svolgere individualisticamente, ma una partecipazione alla missione del vescovo entro il presbiterio diocesano”.

L’insidia del ministero pastorale, stretto tra l’incudine di un attivismo fine a se stesso, che moltiplica “iniziative prive di iniziativa” e il martello di una visione impiegatizia che espone i ministri ordinati al pericolo di spendersi senza donarsi, di consumarsi senza consegnarsi.

Non mancano preti generosi ma scarseggiano preti gioiosi, che si donano “senza paura, senza calcoli e senza misura”, cioè senza essere motivati da alcuna necessità e senza essere condizionati da alcun interesse. (La vita e la formazione permante dei presbiteri – Griglia per l’Assemblea Cei del 2015)

“Il pastore deve rimanere uno che continua a imparare per tutta la vita; il suo modo di apprendere si differenzia dallo studio accademico, anche se questo resta la base di ogni aggiornamento, tanto è vero che l’incertezza della formazione iniziale fa la fragilità della risposta vocazionale” (Pastore dabo vobis).

La Chiesa ha bisogno di guide spirituali, di pastori capaci di “mettersi in ginocchio davanti ai fratelli per lavare loro i piedi” e, al tempo stesso, di “stare in silenzio davanti al Signore” (Salmo 37,7): pastori in grado di frequentare le “periferie della vita raffigurate nelle periferie urbane, sia di “dimorare nelle Scritture” amando il silenzio, in cui è insito, a dire di Dietrich Bonhoeffer, “un meraviglioso potere di osservazione, di chiarificazione, di concentrazione sulle cose essenziali”.

Sono pertanto da incoraggiare tutti quegli incontri che, “seguendo l’antica e sempre valida tradizione della lectio divina”, impegnano i preti a edificarsi a vicenda. “Non è purtroppo frequente – lamentava il card. Giovanni Battista Montini in una lettera indirizzata al clero ambrosiano il 22 marzo 1959 – che i sacerdoti parlino fra loro di argomenti veramente spirituali e scambievolmente edificanti: timidezza, riservatezza, fierezza e forse anche qualche abituale superficialità di pensiero e di linguaggio rendono raro e stentato il colloquio delle cose vere e profonde”.

Una delle “frontiere” della formazione permanente dei presbiteri da esplorare con entusiasmo sincero è la promozione di incontri sacerdotali in piccoli gruppi, sia per raccontare, alla luce della Parola, le fatiche, le speranze e gli interrogativi che nascono dall’esercizio del ministero, sia per preparare insieme l’omelia domenicale, che è la pietra di paragone per valutare la vicinanza e la capacità d’incontro di un pastore con Dio e con il suo popolo

Quante volte il prete, uscendo dalla porta di tante case, dopo aver toccato con mano la croce portata con estrema dignità e umiltà, avverte come una spinta interiore a ridimensionare i propri problemi, le proprie inevitabili croci.

La stanchezza che appesantisce il cuore dei preti spesso è addebiatbile al fatto che “ciò che non si ama, stanca”, oltre al carico di lavoro pastorale.

Dice papa Francesco che esiste una “stanchezza sana” che il riposo riesce ad ammortizzare, ma c’è anche una “stanchezza di se stessi”, estremamente pericolosa, che alimenta il peso della “malinconia pastorale”, il cui campionario è molto assortito:

  • la malinconia di chi si affatica senza portare sul petto chi grava sulle sue spalle (Is 40.11);
  • la malinconia di chi mette mano all’aratro e continua a volgersi indietro (Lc 9,62);
  • la malinconia di chi “cerca i propri interessi, non quelli di Cristo (Fil 2,21);
  • la malinconia di chi non si fa modello del gregge “con animo generoso” (1 Pt 5,2-3);
  • la malinconia di chi si dà agli altri senza “lasciare nulla di sé a se stesso” (Mc 6,31);
  • la malinconia di chi ha l’ansia di estirpare la zizzania prima della mietitura (Mt 13,30);
  • la malinconia di chi misura la sproporzione tra fatica profusa e risultati ottenuti (Lc 5,4-5);
  • la malinconia di chi ignora il proverbio: “uno semina e l’altro miete” (Gv 4,37);
  • la malinconia di chi non sa gareggiare con i fratelli nello “stimarsi a vicenda” (Rm 12,10);
  • la malinconia di chi dimentica che il Fiat è l’antifona del Magnificat (Lc 1,38);

 

L’autorevolezza della testimonianza dei ministri ordinati non è data dalla somma delle loro virtù, ma dall’olio di letizia della meraviglia che alimenta la “lampada della gratitudine”.

Quando con il passare degli anni di sacerdozio cresce lo stupore per il dono ricevuto con l’imposizione delle mani, aumenta pure la meraviglia per la fragilità del “vaso di creta” (2 Cor 4,7), in cui tutti portiamo il mistero. Ogni presbitero, per quanto lo comporti la sua debolezza e lo consenta la fragilità umana, è chiamato a vivere con gioia la dimensione sponsale e verginale del sacerdozio, che non sopporta alcuni atteggiamenti biasimati da G. Battista Montini nella lettera indirizzata ai preti di Milano in occasione della settimana Santa del 1959: “Il calcolo del minimo sforzo, l’arte di evitare le noie, il sogno di una solitudine dolce e tranquilla, la scusa della propria timidezza, l’incapacità sorretta dalla pigrizia, la difesa del dovuto e non più, gli orari protettivi della propria e non dell’altrui comodità”.

Accogliere i doni delo Spirito

Riconoscere il carisma dell’altro è rendere lode allo Spirito che lo ha donato. Un movimento, in quanto riconosciuto dalla Chiesa, è dono dello Spirito di cui dobbiamo rendere grazie a Dio, ma esso non rappresenta mai l’unico modo di essere Chiesa, bensì un modo di essere presenti nell’unica Chiesa. Come ben sappiamo, è solo l’appartenenza alla Chiesa, in quanto tale, la via sicura di salvezza, non l’appartenenza ad un movimento. Questo non può quindi agire come se la parrocchia o la diocesi debbano identificarsi completamente ad esso. Il corpo non potrà mai prendere la forma della parte, se non andando incontro ad una patologica deformazione. Compito di colui che presiede la comunità ecclesiale è quello di dare il dovuto riconoscimento ai doni dello Spirito, operando però verso l’unità dell’unica comunità, evitando deformazioni che sarebbero a danno di tutti. Il pastore quindi non può che essere il ministro della sintesi dei doni, non delle particolarità. Occorre che tutti nella Chiesa ci teniamo allenati a ragionare non per autarchie, ma per comunione di intenti. Le autarchie sono destinate prima o poi a risolversi in orticelli infruttuosi.

“Muoio contento, vorrei che si sapesse!” (testamento spirituale di un vecchio sacerdote)

 

                                                                                                                    + Armando vescovo