L'omelia del Vescovo in occasione di San Paterniano

“Prendersi cura significa anche investire sull’uomo”

“Abbiamo bisogno di vivere la città a partire da uno sguardo di fede che scopra che Dio abita nelle sue case, nelle sue strade, nella sue piazze. Questa presenza deve essere scoperta, svelata. Dio non si nasconde  a coloro che lo cercano con cuore sincero”. Così ha esordito il Vescovo Armando, citando le parole di Papa Francesco, domenica 10 luglio nella Basilica si San Paterniano in occasione del Santo Patrono, Patrono della città di Fano e della Diocesi. All’inizio della celebrazione il Vescovo ha ricordato le vittime della tragedia avvenuta ieri in mare. “Il santo Patrono : difensore in giudizio, santo protettore; sostenitore benemerito. Oggi se pensiamo al patrono ci vengono in  mente immagini più che rassicuranti, di protezione serena, priva di doppi fini, addirittura familiari. Dio abita nella nostra città e ci spinge a uscire incontro a lui per costruire relazioni di prossimità, per accompagnarla nella sua crescita incarnando la Parola di Dio in opere concrete”. Poi il tema della città ossia il vivere comune tra le persone. In una società segnata da ingiustizie e squilibri, i cristiani sono chiamati allo stesso sguardo di Dio, testimoniato in Gesù. Uno sguardo che porta ad atteggiamenti di misericordia. La misericordia crea la vicinanza più grande, che è quella dei volti. Perché la fede vuol vedere per servire e amare, non per constatare o dominare”. E ancora un accenno ad abitare ed edificare la città. “Oggi viviamo in contesti frenetici e frammentati, in un tessuto sociale sempre più debole. Ciò porta gravi conseguenze anche nel modo in cui viene vissuta la città: è sempre più forte la percezione di scollamento tra la caotica e frenetica città che viviamo ogni giorno e la città “ideale”, quel “tutto armoniosamente unito”. Dobbiamo, allora, confrontarci con una serie di interrogativi: come abitare oggi la città? Come sentirsi cittadini di un aggregato umano che chiama l’uomo a porsi in relazione e creare legami solidali? Come esser cittadini responsabili dell’edificazione materiale, morale e spirituale della propria comunità? Come vivere le dimensioni di solidarietà e della comunione quando la proposta dominante va verso un marcato individualismo? “Bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi” (Evangelii Gaudium 235). E’ sbagliato intendere la città come una comunità monolitica di cui sentirsi o meno partecipi. La città è invece l’insieme di comunità più piccole, intermedie tra l’intera comunità cittadina e l’individuo: comunità familiari, associative, parrocchiali, lavorative, etc. Dalle rete delle relazioni che si instaurano tra cittadini, tra cittadini e “comunità intermedie” e tra le “comunità intermedie” stesse deriva il “qualcosa in più” della città che permette che ad abitarle siano persone e non individui.“Non case ma Città”: non luoghi in cui vivere in solitudine, ma spazi in cui la persona possa realizzarsi appieno nella relazione. Quanto contributo possono e debbono offrire le comunità parrocchiali! Città a misura di uomo”. Non vuol dire  semplicemente organizzare infrastrutture e servizi in modo efficiente, ma significa assumere come metro di valutazione delle scelte di governo della città (quindi politiche!) le concrete necessità di ordine materiale, relazionale e spirituale delle persone che abitano la città. E’ la politica il segno distintivo di una città abitata da persone e non da individui, una politica fatta da tutti i cittadini, ognuno secondo le proprie specifiche responsabilità. Le città sono vive, sono realtà dinamiche, perché abitate da persone reali, qui ed ora. E’ necessario dare risposte alle esigenze contingenti delle persone che abitano la città, specie le più fragili e, d’altra parte l’incessante opera di edificazione richiede una prospettiva che vada oltre alla contingenza, che abbia il coraggio di sognare una città diversa e migliore”. Poi il Vescovo si è soffermato sul Vangelo della domenica, la parabola del Buon Samaritano.  “Perché Cristo fa passare per primo un sacerdote? Perché nessuno può dirsi estraneo alle sorti dell’uomo, nessuno può dire: io non c’entro. Siamo tutti sulla medesima strada, nella medesima storia. Ma perché un sacerdote? Se non si ferma un sacerdote davanti a un povero caricato di ferite e spogliato perfino della sua dignità, chiunque egli sia, chi deve fermarsi per primo? Se una religione, o meglio una fede, non si propone per prima cosa la salvezza dell’uomo, una salvezza che sia concreta, operante perfino dentro la cronaca più nera, se una religione non ha come scelta la partecipazione umana, come Cristo si fa uomo, e questa non sia una scelta primaria, partecipazione alle sorti dell’uomo più emarginato e ferito, che religione  e fede sarà mai? Fossero anche dei pontificali, cose santissime: ma se sono avulsi dalla storia quotidiana dell’uomo, a che servono? Quando lo vide passò oltre. Perché? Lo avrà riconosciuto, quindi giudicato? E dov’è andato? Oltre. Cosa c’è più oltre? L’inutilità di una religione. Una religione che non si ferma davanti all’uomo è una religione inutile. Anche un levita. Giunto in quel luogo. Potrebbe significare tanto lo scendere quanto il salire. Infatti, tanta gente non sa mai in che direzione vada. Ma chi è questa gente? Il palco è la medesima strada. Nel Vangelo è spesso richiamata la strada e sembra che tutto accada o debba risolversi su una strada: sulla strada il cieco di Gerico, l’incontro con la samaritana, i discepoli di Emmaus, addirittura sulla piazza l’evento di Pentecoste. E il levita è il rappresentante della classe dirigente. Ma anche lui passa oltre, eppure anche lui sa, ma le sue priorità sono altre, la sua visione del mondo non tiene in considerazione i margini. Dai margini della strada ai margini della vita: da qui nasce l’emarginazione. Peccato di omissione: il più grave del tempo di oggi. Invece un samaritano, che era in viaggio. Qui pare che perfino il testo cambia stile. Infatti, non dice che scendeva o saliva, ma dice “passandogli accanto”, e lo dice al gerundio, come per significare un comportamento sempre in atto. Proprio un samaritano. Un lontano, un maledetto. Un escluso. Lo vide  e ne ebbe compassione. Non c’è umanità senza compassione e senza pietà. E tu hai un modo per verificare il rapporto con Dio, se senti pietà verso l’uomo. E’ proprio per questo che il samaritano sarà sempre uno scandalo, un tormento per la mia vita. Gli si avvicinò. Altre versioni dicono: si curvò su di lui. Ma è lo stesso. Certamente è disceso da cavallo. E’ uno che scende. Sì, bisogna scendere, dai palazzi, dalle cattedre, dalle poltrone … e lasciarsi portare dalla pietà. La compassione non è un istinto, è una conquista, e mette al centro il dolore dell’altro, non il mio sentire. Gli fasciò le ferite… Impossibile non pensare ai sacramenti, che rimarginano le ferite più segrete e più profonde. E il più dolce di tutti è il sacramento della compassione, dell’amicizia, della pietà, il sacramento che ci rende umani. E lo caricò sul suo giumento. Non sopra quello di un altro, non lo scarica su altri. Questi poveri scaricati sui giumenti delle opere pie di tutta la terra, che a volte devono fare il giro del mondo per trovare un po’ di conforto, e non si sa se sia più grande lo sforzo di chi aiuta o di chi è aiutato, lo sforzo del povero che deve sopportare. Invece lui lo prende sulle sue braccia, sul suo giumento, lo porta  nella sua locanda dove alberga lui, non in una “dependance”. E si prende cura di lui. Solo il giorno dopo, quando lui non può non andare, lo affida ad altri, ma sotto la sua personale responsabilità. La locanda, nella traduzione più letterale, è detta il “tutti accoglie”.

  1. Il tutti-accoglie: è la bella immagine della comunità cristiana, come Gesù la sogna. Non è il serbatoio in cui scaricare tutte le situazioni che non riesco a risolvere, ma l’appoggio sicuro che trovo quando scelgo di prendermi cura di qualcuno. Da solo non ce la farò mai, ma so che c’è una locanda che accoglie me e tutti. Luogo del riposo e della rigenerazione: Da essa parto e ad essa faccio ritorno. Ecco la Chiesa del Vangelo! Uno solo è questo samaritano: questo Dio che ama per primo, che ama sempre. E’ Dio che si curva sull’uomo, e lo ama così com’è, e può essere un delinquente, e non gli chiede neppure i documenti. Può esser anche un suo nemico. L’amore non fa mai inchieste sui poveri. Invece noi quante inchieste prima di aprire il pungo a un gesto di stentata elemosina. Non c’è nulla che valga per il Signore quanto un uomo. Ed è lui che paga. Il conto è sempre pagato da chi più ama. Rispetto all’uomo, è Dio che paga per sempre. Un Dio che è sempre in perdita. Mentre sono tanti che ci guadagnano, proprio sull’amore. Il rischio della carità non comincia quando si mette in gioco la propria vita, ma quando si fa elemosina senza lasciarsi coinvolgere. Quando si offre solidarietà senza reciprocità. Quando uno ama ritorna anche indietro a pagare. La solidarietà da sola non basta, se essa non è improntata alla relazione, all’orizzontalità, al riconoscimento e rispetto dell’altro, chiunque esso sia e qualunque cosa abbia fatto. Prendersi cura significa anche investire sull’uomo, coltivare e credere in un’umanità dove tutti hanno diritto di cittadinanza. Non si può fare solidarietà se non c’è giustizia, se si mantiene una barriera tra se  e l’altro”.