La riflessione di don Vincenzo Solazzi

A che punto siamo con l’ecumenismo tra chiese cristiane e nel dialogo interreligioso?

IL FATTORE TEMPO

Sarebbe bello partire dalle parole del Signore Gesù sul tema dell’unità tra i suoi discepoli. Conosciamo tutti i testi biblici fondamentali per l’unità dei cristiani e li abbiamo meditati tante volte, ma mi colpisce sempre il fatto che nel capitolo 17 del vangelo secondo Giovanni l’ultima parola accorata di Gesù, prima della passione, non sia stata una raccomandazione di tipo etico, ma una pagina accorata sull’unità dei cristiani, quelli presenti allora e quelli di oggi, noi che per la loro parola avremmo creduto in Lui nei millenni avvenire.

Quando cerco un testo biblico sull’unità dei cristiani in ordine al fattore tempo, mi viene sempre in mente la piccola parabola dei bambini capricciosi, che non vanno a tempo e sembrano volutamente non cercare la sinfonia e l’unità dei cuori e quasi dispettosi tra loro incapaci di cogliere in tempo i segni dei tempi (Mt 11,16-19 || Lc 7,31-35). Il fattore tempo anche nell’ecumenismo inter-cristiano e nel dialogo interreligioso è decisivo. Tutti noi ricordiamo le parole profetiche del Card. Martini sul “ritardo” della chiesa.

Per la mia generazione, quella del primo post concilio, il tempo nel percorso ecumenico sembrava velocissimo: già i delegati al concilio ci riempivano di stupore e, davanti all’abbraccio tra Paolo VI e Athenagoras, con l’eliminazione delle scomuniche, sembrava già che l’unità fosse possibile. Anche dopo le tre assemblee pancristiane con la promulgazione della “Charta Oecumenica” per l’Europa e il libro del Card. Kasper sull’ecumenismo spirituale, che nella nostra Metropolia ha generato la scelta dei gemellaggi tra parrocchie cristiane di diversa confessione in Europa, tutto sembrava correre velocemente, convinti che non sarebbe stata possibile una nuova evangelizzazione in Europa senza una grande spinta verso l’unità dei cristiani, per poi aprirsi insieme al dialogo tra religioni.

In ordine ai gemellaggi ecumenici credo siano una risorsa da custodire sia nel non facile presente sia nel prossimo futuro. Come la storia bimillenaria della chiesa ci ha insegnato, la convinzione è che nessun rinnovamento sia possibile senza il coinvolgimento delle realtà di base oltre che dei teologi e dei pastori. Oggi abbiamo la gioia di avere tra noi rappresentanti delle chiese ortodosse. La loro vicinanza ci aiuta ad avere una conoscenza più profonda delle comunità che sono fra noi. Siamo arrivati finalmente al punto che le stesse comunità si sentono incoraggiate a vivere insieme, andando oltre la fase, pur necessaria, degli incontri ufficiali dei loro pastori.

Con entusiasmo abbiamo sempre sperato che l’unità dei credenti in Cristo non fosse soltanto una delle fondamentali note di ogni chiesa cristiana, come affermato dal primo credo cristiano al concilio di Nicea. Lo scorso mese i Padri sinodali hanno detto di voler celebrare degnamente, nel 2025, questo splendido anniversario, convinti che quella definizione di “una santa cattolica apostolica” sia anche oggi il requisito decisivo, in vista di una testimonianza credibile del vangelo nel tempo attuale, in un mondo dove tutti convivono insieme e abbiamo ormai un condominio di religioni e di confessioni cristiane storiche e soprattutto di nuove chiese o congregazioni che in modo sbrigativo chiamiamo pentecostali.

 

Un recente libro di Brunetto Salvarani intitolato “Senza Chiesa e senza Dio. Presente e futuro dell’Occidente post cristiano”, fa un’analisi da prendere in seria considerazione, come stimolo a valorizzare il fattore tempo, lasciando a Cristo la capacità di sorprenderci. Ormai essere minoranza creativa è un dato di fatto per le chiese cristiane del vecchio continente. Già Philip Jenkins scriveva nel libro “Il Dio dell’Europa. Il cristianesimo e l’Islam in un continente che cambia” questa dichiarazione di buon auspicio: “È possibile che l’attuale senso di rovina incombente che circonda il cristianesimo europeo susciti un movimento altrettanto importante nel prossimo futuro … La morte e la resurrezione non sono solo la dottrina fondamentale del cristianesimo, ma rappresentano un modello storico della struttura e dello sviluppo della nostra religione”.

Credo sia superfluo dire che l’irruzione di Papa Francesco, fin dal suo primo apparire nella loggia della basilica di San Pietro, abbia dato tanti segni di novità al movimento ecumenico, passando da quello che il Card. Kasper chiamava il “dialogo di facciata o delle coccole” al “dialogo della franchezza e della collaborazione”. Un cambio di passo notevole quello operato da Papa Francesco, il quale ha iniziato a parlare di ecumenismo non come sfera dell’uniformità ma come poliedro, cioè come unità nella diversità, intendendo che l’identità cristiana non potrà essere compresa come negazione dell’altro, ma in relazione all’altro nella sua irriducibile diversità.

[Don Gabriele ci aiuterà a vedere come vivere questo rapporto nella pastorale ordinaria, specie al termine di questa prima parte dell’esperienza sinodale].

 

Siamo ormai tutti consapevoli che l’ecumenismo tra chiese cristiane e il dialogo tra religioni sono indissolubilmente legati: come possiamo essere fratelli tutti se non ci sentiamo e non viviamo, noi cristiani delle varie confessioni, fratelli e sorelle, pur essendo fondati sullo stesso battesimo e sullo stesso credo, nonché fiduciosi nella stessa parola di Gesù contenuta nelle stesse Scritture? Il cambio d’epoca si sta verificando anche qui e la sensazione diffusa è che occorrerebbero linguaggi nuovi e nuovi contesti, soprattutto in vista di un maggiore coinvolgimento delle giovani generazioni come da oltre un decennio si tenta di fare nella nostra Metropolia e regione, dentro un progetto che certamente è nel segno del futuro. Penso sia l’eredità più bella dei nostri decenni di impegno ecumenico, esperienza che dobbiamo custodire e per la quale dobbiamo tutti collaborare con i nostri confratelli che coraggiosamente l’hanno avviata.

 

Siamo partiti 30 anni fa dicendo di voler fare insieme tutto e subito quello che fosse già possibile, nel rispetto di ciò che ci distingue o che in coscienza non possiamo fare. Non siamo riusciti in questi decenni a cogliere l’urgenza e la priorità pastorale dell’unità; non siamo riusciti a contagiare i consigli pastorali, che dovrebbero rigorosamente avere un delegato parrocchiale per l’ecumenismo e il dialogo al fine di appassionare le persone a prepararsi adeguatamente al futuro. Non abbiamo previsto che ecumenismo inter-cristiano e dialogo tra le religioni, dopo i primi passi dalla dichiarazione “Nostra Aetate”, vano di pari passo.

Ora i tempi sono urgenti, anche perché si sta manifestando un clima che alcuni definiscono di “gelo ecumenico”. Noi, tuttavia, non dobbiamo mai sottovalutare i primi passi di un bambino che prova a camminare. Non possiamo perdere la speranza che il Signore possa fare miracoli, specie nei momenti più difficili della nostra storia. Non possiamo chiudere gli occhi dinanzi al momento difficile che viviamo, ma siamo confortati dai tanti incoraggiamenti e esempi di Papa Francesco, che tutti abbiamo nel cuore e che non hanno bisogno di essere ricordati, anche se dopo la “Fratelli tutti” e la “Dichiarazione Sulla Fratellanza di Abu Dhabi”, in molti ci siamo sentiti impreparati di fronte all’urgenza di un dialogo interreligioso, dimentichi che già dalla “Evangelii Gaudium” il dialogo ecumenico sembrava quasi  scontato come dialogo della fraternità tra battezzati. Oggi molti non parlano più di unità tra cristiani ma di comune riconoscimento tra fratelli e sorelle che vivono differenze riconciliate.

Il Papa vede che la Chiesa e il mondo si trovano entrambi in un processo di riassestamento globale, e ci invita a guardare non nella direzione che dal centro va verso le periferie, ma dalle periferie verso il centro o, più precisamente, nella prospettiva di una Chiesa policentrica che deve continuare a cercare una maggiore unione con le altre Chiese e comunità cristiane, e impegnarsi per una maggiore comprensione interreligiosa, ricordando la visione già proposta dal Concilio Vaticano II: “la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” .

Ecumenismo e Chiese della riforma dopo l’incotro di Lund del 31 luglio 2017

A Lund – ma a in realtà a Malmö – c’eravamo. Siamo partiti insieme, in gruppo, sacerdoti e laici della nostra Metropolia. Per alcuni giorni siamo stati ospiti di una parrocchia luterana gemellata con noi, che non è lontana da Vastena, luogo dove si custodiscono le reliquie di Santa Brigida, venerata dai cattolici e dai luterani, figura che unisce le nostre chiese. Poi abbiamo viaggiato insieme verso Malmö. Umanamente è stata un’esperienza indimenticabile. Un pullman, guidato dal pastore della chiesa gemellata, era pieno di cattolici e luterani, nella stessa direzione per incontrare Papa Francesco. Fu un cammino arricchente che dobbiamo raccontare. Ce lo ricorda la presenza di Albert in questi giorni tra noi, il quale ci fa rivivere i momenti trascorsi con il Pastore Sverker Linge di Vreta Kloster, nella diocesi di Linköping.

Nell’omelia tenuta a Lund Francesco notava che siamo chiusi in noi stessi per la paura o il pregiudizio verso la fede che gli altri professano con un accento e un linguaggio diversi. Nella dichiarazione congiunta afferma di non temere di esprimere gratitudine per i doni spirituali e teologici ricevuti attraverso la riforma. Aggiunge che è ormai acquisito che la fede nell’unico Signore unisce molto delle divisioni, per le quali urge, tuttavia, chiedere perdono a Dio e gli uni agli altri.

Le indicazioni già presenti nella “Evangelii Gaudium” hanno guidato anche il cammino ecumenico: l’unità è superiore al conflitto e il tutto è superiore alla parte. Dopo Lund queste linee sono entrate anche nel dialogo ecumenico con una lettura meno semplicistica della riforma luterana e soprattutto con l’invito a incontrare i volti prima di confrontare le idee, a partire dal volto di Lutero visto nella sua complessità. Questo può diventare lo stile del dialogo tra cristiani: guardare in faccia, fissare lo sguardo, stabilire un contatto visivo, prima di entrare nel merito di un confronto intellettuale o di una valutazione morale. È lo stesso imperativo imposto dall’annuncio della fede, che è innanzitutto coinvolgimento esistenziale e incontro di volti.

Questa oggi sembra l’unica strada percorribile per uno sviluppo autentico del cammino ecumenico nello spirito del Concilio Vaticano II. Queste indicazioni e suggerimenti sembrano voler confermare un futuro ai gemellaggi ecumenici tra parrocchie di diversa confessione ma anche tra gruppi, associazioni, monasteri, comunità di stampo contemplativo e anzitutto tra giovani. Proponiamo una sorta di Erasmus spirituale con le chiese della riforma con cui abbiamo condiviso tanto in questi decenni, specialmente con la chiesa anglicana e con le chiese luterane di Svezia e Danimarca.

Ma, anche qui, il fattore tempo è decisivo. In questi decenni è fiorito un quarto ecumenismo, di tipo pentecostale, che sta radicalmente cambiando la mappa del cristianesimo mondiale. I protestanti più numerosi in Italia sono i pentecostali, con circa 300000 fedeli; le Assemblee di Dio in Italia, forti dei loro 250000 fedeli, costituiscono la più grande organizzazione protestante italiana, mentre altri pentecostali sono suddivisi in altre correnti minori, fra le quali la Federazione delle chiese. Le chiese carismatiche e pentecostali, che ormai interessano 682 milioni di persone nel mondo, pongono una sfida immensa all’ecumenismo delle chiese storiche e anche nella nostra Metropolia abbiamo decine di chiese pentecostali con le quali non riusciamo ad incontrarci e dialogare se non a livello personale e amicale. Ricordiamo quando papa Francesco si recò due volte in due giorni a Caserta, per incontrare il Pastore Giovanni Traettino, che è stato anche qui tra noi, seguito poi dal responsabile del rinnovamento carismatico cattolico. Il movimento carismatico indubbiamente potrebbe diventare una presenza preziosa nel dialogo con le svariatissime esperienze carismatiche pentecostali. Davvero non possiamo chiudere gli occhi davanti a questo quarto ecumenismo.

 

 

Le chiese ortodosse e la delicatezza del dialogo ecumenico:

dal grido “unitate unitate!”[1] alle difficoltà del presente

 

Come sappiamo, quello che stanno vivendo i fratelli e le sorelle della santa chiesa ortodossa tra loro e, poi, di riflesso nel cammino ecumenico, ha reso questo periodo un momento davvero difficile e delicato, con le grandissime sofferenze della guerra e le forti divisioni di questi ultimi mesi. Ne parliamo sempre con delicatezza perché nulla si perda di ciò che di vero e di buono abbiamo fatto e tutto possa rasserenarsi. Per quanto riguarda il nostro dialogo ecumenico, essendoci ferite aperte al loro interno, credo che mai come ora dobbiamo custodire la nostra amicizia franca, leale e senza forzature, non solo sottolineando le difficoltà del momento, che hanno radici complesse e che i nostri carissimi fratelli ortodossi presenti tra noi potranno aiutarci a capire. Non parlerei di gelo, ma di pausa ecumenica, personalmente certo che di tutto quello che abbiamo respirato, nel nostro piccolo, in questi decenni nulla andrà perso. Il cammino fatto ci sta aiutando ad una vicinanza ancora più stretta con le comunità ortodosse e greco cattoliche presenti tra noi!

È una grande speranza che gli incontri ecumenici tra giovani ortodossi con cattolici e anglicani e riformati non si siano mai interrotti in questi ultimi anni. Questo è un regalo grandissimo del Signore, che riempie il cuore di speranza per il futuro.

Credo che la preghiera ininterrotta per e con le chiese ortodosse, che abbiamo visitato e che portiamo nel cuore, sia un mezzo fondamentale in questo tempo. Ricordo con commozione i tanti incontri, pellegrinaggi, visite fraterne con la chiesa ortodossa rumena; il legame profondo grazie a san Demetrio megalo-martire con la chiesa ortodossa di Grecia, dopo il dono delle reliquie di san Lorenzo in campo; i ripetuti incontri con la chiesa ortodossa ucraina; con la chiesa ortodossa russa, con un incontro ufficiale nel 2000; con la chiesa serba ortodossa in tempo di guerra, quando il Card. Comastri, dopo l’incontro col patriarca  in una Belgrado oscurata disse: «ora credo nell’unità dei cristiani»; con la chiesa  di Costantinopoli; il pellegrinaggio ecumenico in Terra Santa che oggi insieme portiamo nel cuore per la desolazione della guerra in corso; il toccante incontro con il Catholicos della chiesa apostolica armena, che chiese di essere aiutata a preparare i nostri preti; i tanti altri momenti che non ho ricordato ma  che i fratelli e sorelle della Metropolia portano nel cuore. Tutto ci spinge a una preghiera costante insieme ai vescovi e ai tanti sacerdoti ortodossi, che portiamo sempre nel cuore nel momento presente, credo il più difficile dopo il 1054.

 

La sfida del pluralismo religioso

La crescita del fenomeno del pluralismo religioso è un segno dei tempi e, come già diceva il Card. Martini, costituisce una sfida per tutte le grandi religioni, soprattutto per quelle che si definiscono come vie universali e definitive di salvezza. Il Vescovo e teologo Erio Castellucci conosceva bene Padre Depuis e dice che non era assolutamente un relativista. Ricorda che nella sua autobiografia spirituale affermava: “posso dire con tutta sincerità che Gesù Cristo è stato l’unica passione della mia vita”. Oggi che Papa Francesco ha chiesto nuovo slancio alla Chiesa per la sua missione evangelizzatrice, si potrebbe tornare più serenamente al pensiero di Padre Depuis e direi di aprire una riflessione su come il Padre celeste vede i fratelli e le sorelle delle varie religioni, partendo dalle intuizioni di santi martiri come Padre Cristian de Chergé e i monaci di Tibherine in Algeria, ai quali abbiamo dedicato una cappella nella casa famiglia Nazareth sin dal tempo del loro martirio. Tante volte ci siamo commossi leggendo il loro testamento, dove è riportato il pensiero su come il Padre di tutti vede i suoi figli dell’Islam. Alla Chiesa necessita un nuovo slancio per un dialogo interreligioso pienamente integrato nella sua missione evangelizzatrice.  Qui il tempo è stato velocissimo. Vivo da decenni a distanza di pochi metri dalla una moschea più frequentata della provincia. Qui si apre davvero una pagina nuova che noi cristiani delle diverse confessioni dovremmo scrivere insieme. Per lo meno dovremmo confrontarci su ciò che già ora possiamo condividere con le altre religioni e lavorare umilmente sulle questioni ancora aperte, mai seriamente affrontate.

Conclusione

Ho parlato di fattore tempo ma sappiamo che la parola ‘tempo’ è una delle più complesse della Santa Scrittura. Ho letto e riletto un libriccino di Adrien Candiard, che i fratelli di Pesaro conoscono bene. Mi ha rasserenato per come permette di leggere il vangelo in tempo di crisi, non perché sostenga di prendere con disinvoltura le sfide apocalittiche del nostro tempo, ma perché orienta il lettore a affrontarle con la massima serietà, senza lasciarsi paralizzare né disorientarsi dall’angoscia.

Anche le nostre piccole fatiche ecumeniche allora sono come i dolori di parto: la storia, anche quella del cristianesimo e delle religioni, non avanza al ritmo di un progresso lento ma regolare, come se si trattasse di un miglioramento continuo. Al contrario la storia procede per crisi successive. Di fronte al fattore tempo dobbiamo vegliare costantemente, continuando a gettare le due monetine nel tempio come la vedova povera nel vangelo di Marco. Sarebbe bello sentirci dire da Gesù che abbiamo dato tutto quello che potevamo dare per obbedire alla sua parola: «Io non prego soltanto per questi miei discepoli, ma prego anche per altri, per quelli che crederanno in me dopo aver ascoltato la loro parola. Fa’ che siano tutti una cosa sola: come Tu, Padre, sei in me e io sono in te, anch’essi siano in noi. Così il mondo crederà che Tu mi hai mandato” (Gv 17,20-21). Senza attendere tempi che non conosciamo, crediamo, anche se con grave ritardo, nella assoluta priorità pastorale e nell’urgenza storica di questa parola del Maestro.

Sembra che i primi cristiani si salutassero non dicendo shalom come gli ebrei o chaire come i greci. Per incoraggiarsi reciprocamente si salutavano dicendo maranatha. Non è una notizia sicura, ma è affascinante per noi se da oggi iniziassimo tra cristiani di ogni confessione, immersi tutti dentro un crogiuolo di religioni, storiche o nuove, a salutarci così. Maranatha

 

[1] Bucarest, maggio 1999. Dal Parco Podul Izvor, dopo la Messa, si leva, inaspettato, un grido: “Unitate, unitate” (unità, unità). Lo rivolgono spontaneamente i fedeli cattolici e ortodossi al passaggio di Giovanni Paolo II e del Patriarca della Chiesa Ortodossa Romena, Teoctist. È forse questa una delle immagini più impresse nella memoria di quello che fu il primo viaggio di un Pontefice in un Paese a maggioranza ortodossa.