“La malattia è un momento di prova della vita”. P. Ruffini (Vaticano)

In occasione della Giornata mondiale del malato la riflessione del sottosegretario del Pontificio Consiglio per la Pastorale della salute, il padre Felice Ruffini:D. – Queste Giornate mondiali volute dal Pontefice quali frutti hanno fatto scaturire?

R. – Ormai nella Chiesa si è presa coscienza della necessità della pastorale della salute, di questa pastorale specifica che riguarda tutti, perché non esiste una categoria professionale del malato: la malattia è un momento di prova della nostra vita. E c’è una richiesta di base dalle parrocchie, dalle diocesi, dalle conferenze episcopali. Quindi, vuol dire che ormai la Giornata mondiale del malato è entrata nel vivo della Chiesa e, grazie al magistero del Papa, si è capito che la via alla salvezza passa attraverso la sofferenza, inserita nella sofferenza del Cristo.

D. – Cosa si dovrebbe fare di più, a suo parere, per incentivare questa occasione di pensare ai nostri fratelli sofferenti, la Giornata mondiale del malato, appunto?

R. – Non ci si deve limitare a questa Giornata, per qualche ora con qualche particolare attenzione, o visita solo in questo giorno ai malati: sono cose belle che servono a scuotere la coscienza collettiva. Io credo che già nel messaggio del Santo Padre ci siano obiettivi ben definiti. Sono due gli aspetti che vorrei sottolineare. Il Santo Padre dice che in ogni parrocchia venga attivata una diaconia della carità. L’altro aspetto è che nella formazione dei sacerdoti, quindi nei seminari e nelle congregazioni religiose, si dia più spazio a questa pastorale.

D. – Tutti gli uomini cercano di evitare la sofferenza: questo è naturale. Ma vuole ricordarci l’insegnamento del Papa sul significato cristiano della sofferenza?

R. – C’è la magnifica Lettera apostolica “Salvifici doloris” che è la sintesi del magistero di 2000 anni della Chiesa, dove il Santo Padre mette in evidenza chiaramente che la salvezza dell’uomo, il Cristo, il Figlio di Dio, il Verbo incarnato, l’ha operata assumendo su di sé la sofferenza, sperimentandola e vivendola fino alla morte e poi alla Risurrezione. La nostra sofferenza non potrà mai avere una spiegazione: è un mistero e non riusciremo mai con le nostre parole di uomini a spiegarci perché bisogna soffrire. Però il Papa mette in risalto che se noi riusciamo ad entrare in comunione profonda con il Cristo sofferente, e la nostra sofferenza la immergiamo nella sua, anche la nostra sofferenza diventa uno strumento di redenzione. Il Santo Padre ne ha dato una lezione magistrale non soltanto con la parola, ma con l’esempio e la testimonianza della sua vita.