«Ma di quali case-famiglia parla Repubblica? Quali rette sconsiderate? Quale lucro? Noi ci prendiamo cura dei minori che nessuno vuole, disabili e con gravi handicap, assistendoli di tasca nostra. Anzi paghiamo le inadempienze dello Stato. Vengano a visitare di persona le nostre realtà. Mi sembra davvero che ci sia un pregiudizio ideologico, solo perché spesso siamo noi enti ecclesiali impegnati sul fronte della carità».
È molto amareggiato Paolo Ramonda, responsabile nazionale della Papa Giovanni XXIII, la comunità fondata da don Oreste Benzi nel 1968 che si batte contro ogni forma di disagio (handicap, tossicodipendenza, prostituzione).
E proprio non riesce a mandar giù un articolo del quotidiano La Repubblica (articolo http://www.repubblica.it/cronaca/2011/04/29/news/inchiesta_italiana-15507476/)che accusa le case-famiglia di gestire un business da un miliardo all’anno sulla pelle dei minori.
Perché è così dispiaciuto?
Sono state scritte falsità molto gravi che dimostrano scarsa conoscenza della realtà. Innanzitutto bisogna distinguere le case famiglia dalle comunità-alloggio o dai piccoli istituti. Noi gestiamo vere “case famiglia”, cioè presidi socio assistenziali in cui è presente una figura paterna e materna, generalmente coniugati, che svolgono la loro funzione di papà e mamma, 24 ore su 24, tutto l’anno, e spesso per tutta la vita. I figli naturali vivono insieme con i minori in stato di bisogno.
Ma è vero che le rette vengono gonfiate arbitrariamente?
Noi percepiamo delle rette che arrivano massimo a 60-70 euro al giorno: consideri che in molti casi parliamo di disabili gravi. Poi per il 50% delle persone accolte non percepiamo alcun compenso: in pratica da noi un minore su due è accolto gratuitamente. In più abbiamo molti contenziosi con enti pubblici che non pagano o pagano in ritardo. E talvolta ci sono situazioni sconcertanti: ho chiesto un incontro col governatore della Puglia Vendola perché un comune pugliese ci ha inviato un minore disabile proponendoci 80 euro al mese! Al mese!
Secondo Repubblica ci sono 1800 case-famiglia in Italia con circa 20 mila minori ospiti. E sarebbero in continuo aumento proprio per il business che ci sarebbe sotto…
Ma credo che in questa stima siano comprese anche le comunità-alloggio. Noi non dovremmo rientrare tra queste. La nostra, ripeto, è una proposta unica che corrisponde a ciò che noi intendiamo per “casa famiglia”, ossia la presenza di un padre e di una madre sempre. Abbiamo oltre 300 case famiglia sparse in tutt’italia, più altre 150 in tutto il mondo. Sono appena rientrato dalla Patagonia dove ne abbiamo appena aperta una e la prossima settimana sarò in Bangladesh per un’altra. Io stesso con mia moglie ho una casa-famiglia con 3 figli naturali e 9 accolti. Da noi non ci sono operatori sociali che ruotano ogni otto ore. Siamo in due a occuparcene tutto il giorno.
Un’altra accusa è quella di trattenere i ragazzi oltre il tempo necessario e spesso fino a quando diventano maggiorenni…
A parte che è il servizio sociale a decidere il rientro. Ma per noi il minore accolto è un figlio a tutti gli effetti e continuiamo ad assisterlo anche se l’ente pubblico non paga più la retta. Noi lavoriamo per mantenere i legami parentali di origine, però i piccoli che vengono da noi provengono o dai servizi sociali o dal tribunale dei minori e sono spesso situazioni molto gravi: per handicap fisico o psichico, o perché adolescenti a rischio magari inviati dal carcere minorile. Purtroppo spesso non riescono a ritornare dai loro genitori d’origine, o perché non ce la fanno a tenerli per la gravità dell’handicap o perché la famiglia stessa è causa del problema dei figli. Anche se noi cerchiamo di mantenere sempre i buoni rapporti. Per vocazione accogliamo soprattutto gli orfani e quelli con gravi malformazioni che le stesse famiglie una volta abbandonavano al Cottolengo. La grande novità della Comunità Papa Giovanni XXIII, come diceva il nostro fondatore don Benzi, è quella di diventare padre e madre di chi non ne ha più. Genitori stabili all’interno di una comunità che opera nella Chiesa alla sequela di Cristo.
Come nasce una casa-famiglia?
In genere sono coppie di giovani sposi che dopo un cammino di fede nella nostra comunità, sono formati a quest’esperienza: se lo desiderano e se vengono confermati dalla comunità possono aprire una casa famiglia. Il contributo dello Stato, come dicevo, vale solo per la metà degli ospiti. Per il resto ci si arrangia: molti hanno un lavoro esterno e si usufruisce di una cassa comune secondo le necessità. Per fortuna abbiamo tanti benefattori perchè i nostri bilanci negli ultimi anni sono in passivo a causa delle inadempienze dello Stato che tra l’altro ci obbliga anche a spese ingenti per adeguare di continuo gli immobili.
Repubblica denuncia anche mancanze di controlli e la caccia ad accaparrarsi il minore tra una casa-famiglia e l’altra…
Ma non è affatto vero. Sia per noi che per le comunità alloggio, c’è un’apposita commissione di vigilanza in ogni Asl preposta al controllo. Almeno una volta all’anno ci sono verifiche sulla struttura e sulle attività, e se non hai requisiti ti fanno chiudere subito. Poi noi non rincorriamo nessuno: purtroppo abbiamo liste d’attesa molto lunghe con centinaia di richieste. Anche perché ci facciamo carico di tutti quei minori che per lo Stato non sono né disabili, né tossicodipendenti ma che hanno bisogno di assistenza e non hanno disponibilità economica. Stiamo accogliendo in questo momento 2400 bambini.
Dietro questa realtà si lamentano anche lungaggini burocratiche nell’adozione e nell’affido: pare che solo un piccolo su 5 sia affidato alle coppie in attesa.
Bisogna distinguere: se i minori hanno ancora i genitori, scatta l’affidamento e in questo caso lo Stato ha interesse perché oggi paga una retta molto inferiore a quella delle comunità. Per l’adozione è diverso: se ci sono ancora i genitori non possono essere adottati, anche se c’è l’inadeguatezza della famiglia. Poi oggi ci sono molte più famiglie disposte ad adottare che bambini: lo Stato può e deve fare una scelta oculata. Non è di per sé un male usare la massima cautela. Noi insistiamo perché il bambino abbia sempre un padre e una madre, il dibattito sulle adozioni ai single è solo il grimaldello per aprire alle coppie omosessuali.
Lei stesso vive la realtà di una casa-famiglia: quali sono le difficoltà più grandi?
Io e mia moglie siamo sposati da trent’anni: tra i 9 bambini accolti (oltre ai 3 figli naturali) ci sono una ragazza down e una ragazza con spina bifida in carrozzina. A parte il fatto che possiamo contare sempre sull’apporto della comunità, le nostre “difficoltà” non sono mai esterne, se mai queste ci irrobustiscono. Ma a livello interiore: dobbiamo sempre approfondire la missione che ci è stata data. E la fede ti dà una carica per accogliere ogni bambino. Don Benzi diceva sempre: “Spendetevi fino all’ultimo, non lasciate soffrire nessuno da solo, annunciate loro una nuova speranza”. Una volta andammo insieme in Albania, alle 4 del mattino don Oreste si alzò e uscì di casa. Pensavo non si sentisse bene. Lo ritrovai in una cappella in preghiera con la testa poggiata sul tabernacolo… Noi abbiamo la stessa gioia di trent’anni fa nel dedicarci a bambini che una volta venivano segregati e di cui le stesse famiglie se ne vergognavano. Ma noi nella fede sappiamo che le pietre scartate sono quelle più importanti e preziose agli occhi di Dio.
di Antonio Giuliano