(testo integrale) L’annuale celebrazione dell’anniversario della Dedicazione della Chiesa Cattedrale, madre e capo di tutte le nostre chiese, è momento di grazia. Essa infatti ci introduce in una più profonda comprensione del mistero della Chiesa, e quindi del nostro servizio sacerdotale. E’ l’apostolo Paolo che ci istruisce al riguardo. Egli vede il ministero apostolico come opera di edificazione della Chiesa-Tempio di Dio: edificazione che si compie nel tempo ma raggiunge il suo fine nell’eternità. L’apostolo edifica ora un edificio che solo nel cielo raggiungerà la sua definitiva consistenza.
In uno degli scritti cristiani più antichi la Chiesa è contemplata come la costruzione di una torre fatta con “pietre quadrate luminose… così ben connesse che non lasciavano apparire la congiunzione. Sembrava che l’edificio della torre fosse come costruito con una sola pietra” (Pastore di Erma, X, 4.6). Cari fratelli, come pastori noi viviamo nella Chiesa, della Chiesa, per la Chiesa. La Chiesa è l’ambiente in cui è immersa tutta la nostra vita; è in essa che nasce e si sviluppa il nostro modo di essere e di pensare. E’ per questo che la definizione che l’apostolo fa del ministero apostolico come costruzione dell’edificio-Chiesa deve continuamente occupare la coscienza che ciascuno ha di se stesso. Siamo gli operai della casa del Signore in costruzione. La consapevolezza che stiamo costruendo un edificio che viene preparato per la definitiva dedicazione “in fine saeculi”. La parola dell’Apostolo ci fa consapevoli che stiamo lavorando alla edificazione di uno stesso edificio. Nessuno di noi è solo in quest’opera. E’ così forte la connessione della carità, scrive Agostino, che per quanto numerose siano le pietre viventi congiunte nella costruzione del tempio di Dio, diventano una solo pietra. Diversi i compiti che ci sono affidati; non vicini i luoghi in cui viviamo: ovunque siano poste le pietre, la costruzione è una sola nella carità.
L’apostolo aggiunge un avvertimento grave: “Ma ciascuno stia attento a come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo”. Cari fratelli, lasciamo che queste gravi parole dell’apostolo illuminino la nostra mente e scendano nel cuore. Esse indicano l’asse architettonico della nostra vita sacerdotale. L’edificio che costruiamo per l’eternità ha per fondamento Cristo: “nessuno può porre un fondamento diverso”, ci ammonisce l’Apostolo. Molti e subdoli sono oggi i tentativi di convincere anche noi sacerdoti ad avere qualcosa di più caro che Cristo. Quello che noi abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso.
Ravviva il dono di Dio (2 Tm 1,6)
Lo Spirito di forza, amore e saggezza
“Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, Ma di forza, di carità e di prudenza…”. Chissà quante volte gli Apostoli avranno sperimentato nella loro debolezza e fragilità la grande verità dello Spirito Santo. Lo Spirito è come fuoco nascosto sotto la cenere del camino: non smette di ardere, però è necessario riattizzare la brace per far respirare i carboni e fare ardere con energia il piccolo rogo..
Paolo cerca di rincuorare il giovane Timoteo che, sicuramente, risultava essere facilmente impressionabile per le difficoltà di ogni genere in cui si dibatteva la comunità cristiana di Efeso. Timoteo sembra bloccato, scoraggiato, paralizzato dai mali e dai vizi della sua gente, da false dottrine penetrate fra le buone famiglie del tempo. In Timoteo può rivedersi qualsiasi presbitero che è messo a capo di una comunità e vive la difficile avventura di animarla e di presiederla nella carità e nella fede.
Ma può anche essere la situazione di quei genitori che non riescono a dare testimonianza, innanzi ai propri figli, dei valori del Vangelo. E’ la stessa stanchezza che prende i coniugi nel loro rapporto interpersonale e li porta così a scelte sbagliate. E’ l’essere tiepidi e barcollanti che può caratterizzare il vissuto di fede di qualsiasi credente. E’ paragonabile, tale fiacchezza, alla nostra incapacità di compiere scelte critiche e ponderate innanzi alle proposte errate del mondo o a messaggi deviati della società in cui viviamo.
Qual è il rimedio per questa fragilità?
Paolo si appella alla stessa fede autentica di prima. Timoteo è in grado di ravvivare di riattizzare, il fuoco dello Spirito, cioè il carisma di Dio, di cui è stato investito il giorno della sua consacrazione. Il carisma di Dio (gratia Dei) è una realtà in atto. La paura-timore di Timoteo si riferisce a quel senso per lo più abituale di disagio provocato dalla soggezione, dal pudore, o anche dal timore. E si può tradurre in un comportamento impacciato, esitante, nonché di vigliaccheria e di pusillanimità. La timidezza rende inclini ad impaurirsi, a sentirsi schiacciati da un certo peso, da un senso di oppressione , come anche a non prendere decisioni. La paura può divorarci, fino a farci astenere dall’agire, a farci cadere nel baratro del muto silenzio. Nel monito di Paolo si avvertono l’eco della parola di Dio rivolta ai profeti e l’oracolo relativo:”Non temere” (cfr Gn 15,1; Dn 10,12; Lc 1,13-30). La fede non fa vacillare alcuno. Se uno è stabile nel Signore viene reso stabile dal Signore (cfr Is 7,4-9; 8,5-8). Dinanzi alle prove della vita anche noi esitiamo. Restiamo paralizzati dallo scandalo nella Chiesa o dal male nel mondo. Ci sentiamo inibiti ogniqualvolta la Parola di Dio è rifiutata e il Vangelo calpestato. Occorre lasciarsi contagiare dal carisma ricevuto. Quando noi ci sentiamo esitanti e confusi significa che è giunto il momento di invocare lo Spirito, di riappropriarci di un dono che abbiamo già ricevuto, fino a stabilire un rapporto più profondo con Cristo e la sua Parola.
Soffrire per il Vangelo
“ Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per Lui; soffri con me per il Vangelo” (2 Tm 1,8). Non possiamo vergognarci del Vangelo, né della condizione miserabile dei suoi testimoni. Paolo esorta Timoteo alla fortezza nella predicazione della Parola e a soffrire con Lui, fino a condividere la sua stessa sorte. Soffrire per la buona notizia significa partecipare alla stessa sorte di Cristo, cioè alla morte di croce. Soffrire per il Vangelo, per noi oggi, vuole dire lasciarsi guidare da Cristo. Non vuol dire adeguare la forza della Parola alla mentalità di questo secolo o ridurre la verità esplosiva del Vangelo alla logica del mondo. Siamo ancora vittime di un cristianesimo borghese. Patire per Cristo è, in questo momento, rischiare di stare ai margini della società. Soffrire per il Vangelo significa, ancora in profondità, amare la Chiesa di Cristo e servirla con lealtà, procedendo controcorrente, e vedere nell’autorità apostolica una guida sicura, una luce di speranza notevole per il nostro tempo e il bene del mondo. Vivere la passione del venerdì santo, attualmente, consiste nel riconoscere il limite della propria libertà e ritrovarsi liberi nel progetto del Padre. C’è bisogno di capire, come Paolo, che Gesù ha le mani sporche e ha abbandonato la sua gloria per venire da noi. Egli è vissuto con esseri insignificanti come noi ed ha volutamente accolto le nostre vergogne e umiliazioni.
“ E’ meglio tacere ed essere che dire e non essere. E’ bello insegnare se chi parla opera. Uno solo è il maestro che ha detto e ha fatto, e ciò che tacendo ha fatto è degno del Padre. Chi possiede veramente la parola di Gesù può avvertire anche il suo silenzio per essere perfetto, per compiere le cose di cui parla o di essere conosciuto per le cose che tace. Nulla sfugge al Signore, anche i nostri segreti gli sono vicino. Tutto facciamo considerando che abita in noi, come apparirà al nostro volto amandolo giustamente” (Ignazio di Antiochia, Agli Efesini).