Due giornate di formazione sulla catechesi quelle che hanno vissuto, nelle serate di lunedì 18 e martedì 19 settembre, i catechisti e gli operatori pastorali che hanno preso parte agli incontri introdotti da don Matteo Pucci, vice direttore dell’Ufficio Catechistico diocesano. Lunedì 18 settembre il Vescovo Armando ha proposto una riflessione sul Vangelo di Matteo (Mt 20, 1-16). “Lo stile del padrone della vigna – ha sottolineato il Vescovo – è quello di Gesù che non si basa prima di tutto sul merito o sulla stretta giustizia, quanto piuttosto sull’amore gratuito, sull’amore generoso e dona anche a chi non ha diritti da accampare. A chi è diretta questa parabola? Ai farisei, a quanti pensano come loro che la religione sia simile a un rapporto economico da regolare secondo giustizia. Nel regno di Dio è l’amore che regola le relazioni tra uomo e Dio, non è un rapporto dare/avere, per così dire ‘contabile’. Il rischio – ha concluso il Vescovo offrendo ai presenti due provocazioni – è quello di imbarcarsi in un rapporto con Dio dove la nostra retribuzione è stabilita in base a un merito. Gesù vuole, invece, evidenziare la misericordia del padrone della vigna, ovvero la grazia di Dio, grazia offerta a tutti generosamente”.
Il Vescovo si è poi soffermato sulla lettera pastorale, in particolare per ciò che riguarda il ripensare processi formativi a partire dagli adulti. “Sulla bocca del catechista – ha sottolineato il Vescovo citando Evangelii Gaudium n. 164 – torna sempre a risuonare il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti”. Quando diciamo che questo annuncio è “il primo”, ciò non significa che stia all’inizio e dopo si dimentica o si sostituisce con altri contenuti che lo superano. È il primo in senso qualitativo, perché è l’annuncio principale, quello che si deve sempre tornare ad ascoltare in modi diversi e che si deve sempre tornare ad annunciare durante la catechesi in una forma o nell’altra, in tutte le sue tappe e i suoi momenti”. Prendendo sempre in esame i processi formativi proprio a partire dagli adulti, il Vescovo ha offerto ai presenti tre concetti chiave: ogni persona è adatta al Vangelo a partire dalla situazione in cui si trova; l’annuncio non chiede condizioni preliminari, è unilaterale, è donato in atteggiamento di assoluta gratuità; mostrare l’efficacia della fede nella propria vita”. “Noi educatori – ha concluso il Vescovo – dovremmo esprimere la contentezza di aver ricevuto la fede e di volerla trasmettere con dolcezza e con umiltà”. Dopo l’introduzione del Vescovo, don Matteo Pucci è entrato nel vivo del tema della serata, ovvero l’accompagnare nella catechesi, prendendo a prestito le parole di Enzo Biemmi presidente dell’Équipe europea dei catecheti. “Il modello attuale di iniziazione cristiana non inizia più alla fede. Il catechismo a cui siamo abituati è una forma di iniziazione cristiana che ha 500 anni. Come era strutturata? L’ora settimanale di catechismo aveva 4 caratteristiche: una classe, un maestro, un libro e un obbligo di frequenza. Questa ora di catechismo è stata una modalità semplice ed efficace perché era a servizio di un processo di iniziazione cristiana che aveva, e ha ancora, due caratteristiche: concentrata sui bambini e finalizzata a dare i Sacramenti che mancano. Questo processo funzionava perché si trovava nel contesto di una parrocchia che aveva questa caratteristica: un’organizzazione religiosa che offre servizi religiosi a persone già credenti, una parrocchia cosiddetta della “cura delle anime”. Noi continuiamo a portare avanti un modello di catechesi per una cultura che non c’è più. Il cristianesimo sociologico, quello di tradizione, quello della fede scontata e obbligata, non esiste più. Occorre passare da una parrocchia “cura delle anime” a una parrocchia missionaria, una comunità cristiana dove i catechisti si rimettono in gioco per riscoprire la fede insieme a bambini, genitori, famiglie. La comunità deve riscoprire un’educazione cristiana che abbia a cuore l’adulto, la famiglia nel suo insieme. La parrocchia deve introdurre alla vita cristiana”. Al termine dell’intervento di don Matteo Pucci, i catechisti e gli operatori, divisi in gruppi, hanno proseguito nella riflessione sull’accompagnamento nella catechesi.
La serata di martedì 18 settembre ha visto, come relatore, il gesuita Flavio Bottaro, introdotto dal vicario per la pastorale don Marco Presciutti, che è intervenuto sul tema “Il discernimento integrato nell’accompagnamento”. Bottaro, dopo aver spiegato, in sintesi, il significato del termine discernimento come mettersi in ascolto di una parola che non proviene da noi, ma da qualcuno che è fuori di noi, una parola affidabile e credibile per la nostra vita che, proprio per questo, noi decidiamo di assecondare. E’ passato poi ad approfondire il Vangelo di Giovanni, in particolare l’episodio che narra l’incontro tra Gesù e la samaritana, che Bottaro ha definito un modello di accompagnamento. “Questo brano ci fa capire che non ci sono limiti alla creatività di Dio, di come Dio si serve di tutto quello che noi siamo e viviamo per creare, comunque, nuova fede. Questo brano del Vangelo, a noi catechisti e operatori pastorali, ci invita a imparare l’ascolto attivo, un ascolto che non si ferma alle parole ascoltate, ma cerca sempre di andare oltre, di capire nel profondo la persona che ho davanti cosa mi sta comunicando non solo con le parole, ma con i suoi gesti, i suoi silenzi. Quello dell’accompagnatore – ha messo in evidenza Bottaro – è un esercizio continuo che di fronte al bisogno dell’altro. L’accompagnatore non è una persona neutra, ma se vuole davvero prendersi cura dell’altro deve mescolare la sua storia personale, fatta di risorse e fragilità, con la storia dell’altro. E’ da questo intreccio che, piano piano, si genera quello spazio dove l’altro inizia a fidarsi e quindi a raccontarsi in profondità, così come è accaduto alla samaritana. E’ importante anche esplorare i tentativi che non hanno funzionato per risolvere questo bisogno perché, stabilito il rapporto di fiducia, la persona è disponibile a rileggere la propria storia. Non si tratta di adottare un atteggiamento buonistico, ma di far percepire che questa persona è figlia non nonostante la sua storia ma proprio per la sua storia, perché è proprio in quella storia di cadute, di fragilità che Dio si manifesta. Ciò che l’accompagnatore può fare è aiutare a leggere quella storia, mettendosi continuamente in gioco in prima persona con la propria vita e prendendosi cura della propria dimensione interiore non solo per il suo benessere ma per il benessere dell’altro”.
a cura di EP