Non mi sono mai piaciuti i discorsi di rappresentanza e ancora meno quelli di commiato. In molte circostanze, sociali e religiose, mi è stato domandato: Vuole dire qualcosa? Riposta: anche no.
Mi piacciono le comunicazioni sincere e che vengono dal cuore.
Innanzi tutto voglio ringraziare per questi anni trascorsi a Bellocchi. Spero di aver costruito qualcosa, nella direzione del Vangelo, insieme a tutti e tutte voi.
Sono stati anni ricchi di bene e anche di qualche incomprensione, ma si sa che questo avviene in ogni famiglia e in generale nella vita.
Io ce l’ho messa tutta e vi ho donato 23 anni della mia vita che ho spesso dedicato totalmente ai ritmi della comunità, esistenti e creati.Ho avuto più fortuna con le iniziative, meno con la formazione, l’amore per la Parola di Dio e una spiritualità coerente e feconda; eccezion fatta per il gruppo dei catechisti e degli educatori ACR o giovanissimi.
E’ vero che ho sempre dedicato un’attenzione particolare ai più giovani, convinto che sia lì il futuro di una comunità ecclesiale, nella quale gli adulti e le adulte si fanno testimoni attenti, profetici e credibili e curano con amore la trasmissione della fede.
Sono consapevole di avere un carattere non facile, con il quale combatto e ho combattuto. Mi consolo pensando che non ce l’ho solo io. L’esperienza mi ha insegnato che siamo tutti, chi più chi meno consapevolmente, sulla stessa barca. Tutti uguali davanti a Dio, tutti fragili e peccatori, tutti servi inutili. Sarebbe bene riflettere su questo dato, prima di esprimere ogni tipo di giudizio.
Due atteggiamenti mi caratterizzano: la fedeltà alla parola data e la sincerità nel rapportarmi con gli altri e le altre. Sempre e comunque ho cercato di dire le cose all’interessato o all’interessata, senza accampare scuse; cercando aiuto per farlo, non andando a piagnucolare convinto dell’assolutamente inevangelico motto: Ubi major minor cessat (Dove c’è il superiore l’inferiore deve sottomettersi).
D’altra parte, ho pagato l’incapacità a dire di no, per il timore di scontentare e assoggettato per educazione al giudizio e al parere degli altri. Ho sempre dato fondo all’affetto e alla comprensione per chi è più sfortunato/a, non solo economicamente, per chi è spesso provato dalla vita, per chi pensa di aver smarrito la fede, per gli esclusi a causa della loro situazione canonica, per i più distanti e diversi, rischiando di trascurare dell’altro.
Ho sempre verificato, con dolore, che la comunità ha visto e in parte continua a vedere il prete come una persona disincarnata, che si identifica totalmente con il suo ruolo, a volte un mero professionista del sacro, sempre pacato, sempre disponibile, sempre di buon umore, efficiente: se adempie a questo ruolo, senza farla troppo lunga con l’omelia, allora è apprezzato.
Altri, se sono fortunati a incontrare la persona umanamente giusta, vedono in lui l’uomo che sa ascoltare, letteralmente di tutto. Senza fare del vittimismo, invito a riflettere su alcune domande: Chi ascolta il prete? Con chi si può confidare nelle difficoltà un prete? Come può convertirsi un prete se sbaglia senza consigli sinceri e schietti? Come può vincere la solitudine e la frustrazione di vedere una cristianità che si fa sempre più sottile e si ripiega nel sacro e in forme di religiosità che hanno fatto il loro tempo?
Specialmente in questi ultimi anni sono molto cambiato. Ho una percezione diversa e più sincera di me stesso, sena ipocrisie e paura. Ho riflettuto di più sul fatto che il pastore è prima di tutto un uomo, poi è un cristiano né più e né meno come gli altri, infine il prete. Queste tre prospettive coesistono, con equilibrio e non vanno però mai dimenticate né è giusto farne prevalere una sola. La prima è un dato naturale, la seconda è una scelta di vita, la terza è una modalità di servizio; né più e né meno come le altre vocazioni nel popolo santo di Dio e come ciascuna di esse è singolare e preziosa.
Se non piaci a te stesso e non ti ami, come puoi amare gli altri e come puoi farlo come ami te stesso? Poveri altri! Avranno sì e no le briciole!
L’età e l’usura della quotidianità hanno eroso la fiducia in me stesso e mi hanno reso dubbioso e a volte arrabbiato. Ne domando scusa.
Ringrazio Dio di aver incontrato qui molte persone che mi hanno voluto bene e sulle quali tanti potevano confidare perché, nonostante gli impegni che tutti hanno e la vita lavorativa e familiare, hanno ritagliato tempo per impegnarsi nella pastorale parrocchiale, a tutti i livelli: non ce ne sono di più umili e più grandi, tutti esprimono la molteplicità dei doni che lo Spirito suscita nella chiesa.
Ringrazio gli amici e le amiche. Sì, anche l’uomo, cristiano e prete può e anzi deve averne. Sono le persone che ti dicono la verità, che a volte ti fanno inferocire, ma ci sono sempre quando hai necessità di loro e chiedono che anche tu sappia comportarti così.
So che il vescovo Andrea, del quale ho grande stima, avrà cura di questa comunità e non le farà mancare il ministero e il coinvolgimento. Bellocchi è piena di iniziative, associazioni, volontariato, voglia di unirsi per il bene del luogo dove si vive, esprimere creatività. Sono stato testimone del fatto che c’è desiderio di collaborare e la parrocchia è vista come interlocutrice, alla pari, in molti progetti.
Ora, per me, è tempo di sciogliere le vele per la quinta volta nella mia vita e di vivere il cambiamento come una risorsa e una nuova possibilità. Vi porterò sempre nel cuore e vi assicuro la mia preghiera, spero che vorrete fare altrettanto.
Bellocchi, 4 febbraio 2024
Don Giuseppe Cavoli