(testo integrale della relazione) Il discernimento vocazionale. Ciclicità, ecclesialità e autenticità di un servizio alla persona e alla Chiesa. Oggi non possiamo pensare al discernimento, nella vita della persona che sta facendo un cammino vocazionale, come ad un avvenimento circoscritto e monolitico. Nella vita del chiamato c’è infatti un susseguirsi di fasi e un coinvolgimento plurale di soggetti che rendono complesso il nostro approccio, cosicché i due fulcri della progettualità educativa che riguarda i futuri presbiteri, il discernimento e la formazione, anzi per essere più precisi, un discernimento costante e ciclico per formare, ci portano ad allargare lo sguardo alle fasi plurime del d., distinguendo, per poi unificarle nell’unico discernimento della Chiesa. Il progetto formativo del Seminario Regionale di Molfetta, già nel 1988 parlava di una ciclicità a servizio del discernimento, come struttura che costituisce un habitus non solo del giovane di oggi, ma anche del prete di domani: “… vuol educare il giovane ad imparare l’arte del discernimento perché tutto sia ricondotto a Cristo, Redentore dell’uomo.” Nell’ottica di questa ciclicità potremmo dire che fare discernimento significa già formare, e formare significa dare degli elementi per il discernimento e la costruzione di una identità. Le diverse fasi di questo percorso coinvolgono la comunità cristiana che accompagna il discernimento vocazionale; tale responsabilità –fatta salva la libertà della persona che fa discernimento, che rimane sempre un soggetto e non è mai un oggetto- è in ultima analisi del vescovo, poi del responsabile della formazione (il rettore), del padre spirituale. Ma non si possono escludere i contributi, a vario livello, di altri soggetti che contribuiscono alla formazione-discernimento: gli esperti di scienze umane ( psicologi), i parroci, di docenti, i laici con i quali il chiamato viene a contatto.
• Un discernimento ciclico e costante, in dialogo con la formazione.
Ma cosa intendiamo per discernimento? La voce del Nuovo Dizionario di spiritualità curata da padre Baruffo distingueva d. personale (“la ricerca della volontà di Dio fatta da una persona singola”), dal d. comunitario ( “la mediazione della chiesa nella lettura dei segni dei tempi della società in cui vive”). Perché un discernimento vocazionale richiede quest’ultima mediazione ? Semplicemente per la natura stessa della vocazione: “Il presbiterato è per il ministero ecclesiale e non per una dignità personale. La valenza pastorale della carità presbiterale non si esaurisce nel costituivo rapporto sacramentale, intimo e vivo con Cristo pastore, ma si innerva nelle relazioni ecclesiali.” Molto opportunamente, mi sembra, Don Sovernigo distingue ( ma non divide), discernimento spirituale da discernimento morale: “ Quello spirituale: occorre saper leggere la situazione alla luce della fede per poter procedere adeguatamente secondo il disegno di Dio; morale: la dimensione morale si situa dentro il cammino spirituale come un’area di realizzazione e di verifica della qualità della risposta umana all’iniziativa di Dio.” Pur riconoscendo che protagonisti del discernimento sono lo Spirito Santo e la persona interessata, dobbiamo dire che la figura intermedia è “ un facilitatore della comprensione del dialogo tra Dio e l’uomo (così si esprime lo stesso Sovernigo), per raggiungere l’obiettivo di “condurre il giovane a saper scegliere e attuare ciò che è buono, a Dio gradito e perfetto e restarvi fedele; ciò va fatto anche quando verrebbe spontaneo alla guida o sembrerebbe più semplice intervenire per sostituirsi al giovane e al suo diritto/ dovere di scegliere(…) In sintesi l’obiettivo del discernimento è aiutare la persona ad acquisire la libertà nell’autotrascendenza dell’amore. Criterio del discernimento è l’autotrascendenza.”
Cosa si chiede nel discernimento vocazionale per il presbiterato? Occorre soffermarsi sulle diverse fasi per cogliere lo spessore di questo lavorìo interiore e relazionale. Il documento sulla formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana –giunto alla sua terza revisione nel 1997- ci offre a proposito un quadro molto chiaro ed ampio, anche rispetto all’edizione del 1980, corredato in appendice di due schemi per il colloquio in vista dell’ammissione agli ordini e in vista della celebrazione degli ordini stessi. Il testo è stato preceduto da una nota della Commissione Episcopale per il clero della CEI, intitolato Linee comuni per la vita dei nostri seminari, del 1999, un documento che si sofferma molto sul cammino propedeutico e sulle sue esigenze in merito alla preparazione per una formazione integrale.
1.1 Il propedeutico, ovvero un discernimento prima del seminario: la chiesa comincia dalla persona. Il tempo della preparazione al discernimento e alla formazione al presbiterato, che ovviamente non è tempo neutro, fino ad allora, aveva riguardato più i seminari minori, i centri diocesani vocazioni con il loro compito di animare la sensibilità e sostenere l’accompagnamento vocazionale delle comunità parrocchiali, e “altre forme di comunità vocazionali”, menzionate e illustrate nelle loro finalità “in nuce”nei numeri 78-80 de La formazione dei presbiteri nell’edizione del 1989. Il lento spegnersi della vita dei seminari minori –situazione che meriterebbe una analisi approfondita su tutto il territorio nazionale- e i cambiamenti nella stessa tipologia di chiamati che chiedevano di fare un cammino vocazionale, portò l’attenzione dei vescovi a soffermarsi maggiormente sul periodo propedeutico, che ha visto negli ultimi anni un fiorire ed un consolidarsi di esperienze diffuse. Esplicitamente scrivevano: “Due esigenze hanno motivato la Commissione Episcopale per il clero a farsi carico del problema educativo dei seminari: da una parte quella di preparare la revisione di La formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana. Orientamenti e norme, documento formalmente già scaduto; dall’altra, la significativa metamorfosi verificatasi nelle comunità seminaristiche in questo ventennio di fine secolo, che in qualche modo rispecchiano le mutate condizioni culturali del mondo giovanile.” Il testo del 1999 è così composto nei suoi capitoli: la questione formativa e il suo orizzonte; l’esigenza di favorire nella persona le condizioni per una vera e fruttuosa formazione; l’esigenza propedeutica: tra percorsi tradizionali e nuove proposte; l’esigenza di un progetto di formazione per ogni seminario: aspetti fondamentali; l’esigenza formativa di dare spessore esistenziale alla figura teologica del presbitero; l’esigenza formativa di elaborare a trasmettere la proposta teologica per il pastore d’oggi. Tale suddivisione rivela una insistenza maggiore sulla formazione umana e spirituale, piuttosto che su quella teologica e pastorale, partendo dal punto di vista non del formatore del seminario, ma del clero: parte da diagnosi e preoccupazioni e allo stesso tempo è coraggiosamente proteso alla ricerca di soluzioni. Quelle che sono le caratteristiche della condizione giovanile, vengono lette attraverso le lenti della comunità che guarda al futuro presbitero e si chiede: di cosa ha bisogno questo giovane per poter divenire un presbitero? L’attenzione è posta sulla persona, è questo è molto positivo: prima di parlare del dover essere si parla dell’essere. Ritengo che sia centrale la maniera con cui si affronta il rapporto tra motivazioni ideali e bisogni reali, che in quel “guazzabuglio” del cuore umano sono in tensione o addirittura in lotta, come si esprime Linee formative : la lotta spirituale che si avverte nel momento in cui si cerca di realizzare un buon ideale, nella consapevolezza di spinte e tendenze opposte (è la lotta spirituale di tutta la vita cristiana); la tensione di chi deve superare i condizionamenti di vere e proprie psicopatologie più o meno gravi, che hanno condizionato la maturazione umana, e che assorbono le energie di chi sta facendo un cammino impedendogli un reale discernimento e un’altrettanto veritiero cammino; una tensione o lotta inconscia tra ideale e maturazione umana condizionata ancora da bisogni adolescenziali. Questa vulnerabilità, così è definita, la prima realtà di cui farsi carico nel discernimento ecclesiale, per fare luce su quelle zone d’ombra nelle quali occorre chiarezza spirituale e una maturità umana adeguata all’età.
Nell’esperienza normale di un rettore di seminario, le cause di tali conflitti sono quasi sempre nella famiglia, nella precarietà della figura paterna, nella delega inconscia del compito educativo. Davanti a questa realtà giovanile, il periodo propedeutico, così come è progettato nel documento La formazione dei presbiteri parla di un “iniziale discernimento vocazionale, che verifichi la rettitudine delle intenzioni, la fondatezza delle motivazioni, la consistenza della personalità.” Ma prima del propedeutico cosa avviene? Non esiste una comunità cristiana, non si fa un primo discernimento, non ci sono dei tempi? Su questo punto ritornerò quando parlerò dei soggetti del discernimento; per ora basti dire che molte problematiche vengono rimandate al propedeutico, che necessariamente si troverà a dare giudizi e a lavorare con la persona in tempi brevi, e si sa i tempi brevi non sono mai i tempi migliori per la maturazione e per l’accompagnamento. Un giovane che bussa alle porte del propedeutico ha tante volte un vissuto di chiesa, la comprensione della sua vita nell’ottica di una progettualità pari a zero. La sua fragile identità è spesso affascinata dal ruolo di qualcuno che gli ha testimoniato la bellezza del presbiterato e della donazione di sé. Il giovane fa un primo discernimento sulle sue intenzioni ( “Vorrei donare la mia vita per il Signore”), ma non ha ancora fatto i conti con la triplice tensione di cui sopra.
1.2 Il passaggio al seminario maggiore e i tre bienni di discernimento/ formazione.
Il testo sulla formazione dei presbiteri illustra le caratteristiche che un giovane deve avere per essere ammesso al seminario maggiore, desunte dal can. 241, il quale sottolinea la responsabilità del vescovo ( è lui che ammette al seminario maggiore): una esperienza viva di fede e la chiara percezione della chiamata, una positiva esperienza ecclesiale, una personalità sufficientemente sana e ben strutturata dal punto di vista relazionale, la passione apostolica e missionaria, l’orientamento alla vita celibataria, una sufficiente preparazione culturale. Questi sono i criteri generali. Più specificatamente, quelli vocazionali sono: l’apertura al mistero, l’identità nella vocazione, un progetto vocazionale ricco di memoria credente ( la riconciliazione con il proprio passato), la docibilitas vocazionale. Si tratta di criteri di grande spessore e determinanti tutto il cammino successivo. La fede ( apertura al mistero) è in dialogo con il sé della persona, che si percepisce non rivestita di un ruolo estrinseco alla sua identità, ma come autorealizzante il suo io ideale, riconciliato con il suo io attuale, segnato dalla memoria di eventi che ne hanno in qualche modo plasmato la struttura. Mi sembra molto chiaro anche il riferimento alla docibilità: la vocazione non è un diritto e l’accompagnamento non è un optional. In una sensibilità culturale molto autoreferenziale, questo criterio risulta a molti faticoso da accettare. Il n. 53 del documento sulla Formazione si sofferma molto sui criteri di discernimento nell’area affettivo sessuale: vi dedica lo stesso spazio che ha dedicato a tutti i criteri già detti messi insieme, segno che il problema viene avvertito come molto delicato. Si dice chiaramente che è necessario essere prudenti e negare o dilazionare l’ingresso in seminario a chi presentasse problemi irrisolti nell’ambito delle relazioni eterosessuali o dell’omosessualità, e nella nota 118 si precisa che “per nessuna ragione, evidentemente, può essere presa in considerazione la domanda di coloro che manifestassero tendenze pedofile.” Sull’orientamento omosessuale, citando anche il documento del 2005, si dice: “Non possono, quindi essere ordinati presbiteri e, di conseguenza, non devono essere ammessi in seminario coloro che praticano l’omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondante radicate o sostengono la cultura gay.” La perentorietà del richiamo va coniugata con il discernimento su situazioni che presentano determinati requisiti: coscienza del proprio problema ( che all’origine non è spesso sessuale), consapevolezza di una debolezza ritenuta un corpo estraneo alla propria personalità, controllo della debolezza in vista di un superamento. In definitiva, a chi manifesta problemi di orientamento sessuale, non pratica l’omosessualità e si pone in seria discussione, ci sono degli spazi e dei tempi di verifica e dei margini di percorso.
Non sono solo queste le patologie con le quali fare i conti. Linee comuni, ancora una volta si rivela illuminante: distingue patologie più consistenti ( l’instabilità della vita, l’incapacità di intuire i sentimenti degli altri, le azioni impulsive di carattere aggressivo senza alcun controllo, onnipotenza e grandiosità con sopravvalutazione di sé, esaltazione o critica totale di cose e situazioni), da patologie più lievi (desiderio di essere sempre rassicurati, tendenza a rifugiarsi nel passato, deformazione considerevole degli aspetti che la realtà gli chiede, tendenza a cancellare i sentimenti disturbanti).
Quanto richiesto nel propedeutico ritorna ciclicamente, in livelli caratterizzati maggiormente dalla stabilità, negli anni successivi, soprattutto alla fine del biennio, in vista dell’ammissione tra i candidati al diaconato e al presbiterato, con un discernimento che viene definito tendenzialmente definitivo e nel quinto anno, quando si parla di un discernimento definitivo. Gli aspetti della formazione si intrecciano con tale discernimento: non si riflette solo su ciò che si è “in partenza”, ma anche su ciò che si diventa nelle fasi di crescita. Si parla infatti di verifica dei segni della chiamata vissuta nel celibato, di intenzioni, di motivazioni, di idoneità che le supportano. Non è più l’intenzione di chi si trova agli inizi di un percorso, con una scarsa esperienza spirituale, ad esempio, o con una conoscenza teologica nulla o minima, ma si tratta di vedere quanto l’esperienza spirituale faccia progredire la persona, oppure se lo studio è vissuto con maturità. Il tema del celibato ritorna costantemente ed è strettamente unito a quello della vocazione. Il periodo intermedio, il cosiddetto biennio ministeriale nel quale si ricevono i ministeri del lettorato e dell’accolitato, si parla di consolidamento e di formazione all’identità del presbitero. Anche se non si parla esplicitamente di discernimento, si dà ad intendere che i ministeri sono pedagogicamente inseriti nel percorso di formazione per riempire di contenuti questo tempo, per proporre mete e verifiche spirituali, per seguire con criteri oggettivi il cammino progressivo verso il presbiterato.
Queste le attese, nelle varie fasi, ma quali sono le risposte?
Centrale in tutti i criteri è l’obiettivo di discernere per formare l’identità. Scrive la Del Core: “L’identità personale giunge a maturazione quando la persona diventa capace di relazione mature e riesce a fare una scelta di vita stabile e una scelta di valori significativi; così la scoperta della propria vocazione e la progressiva certezza della chiamata completano la formazione dell’identità.” I valori significativi sono tuttavia condizionati da bisogni, e qui occorre un primo discernimento: “ I bisogni spingono verso una valutazione sensitivo-emotivo immediata legata alla funzionalità dell’oggetto gratificante ( volere emotivo), i valori sono frutto di una ricerca del giudizio riflessivo e della capacità d’astrazione ( volere razionale). Il bisogno coglie solo l’aspetto utilitaristico dell’oggetto ( il per me), attraverso il valore si coglie invece la verità e la validità intrinseca ( il per sé) della realtà conosciuta.” Bisognerà tenere presente che i giovani, salvo il caso di gravi psicopatologie rilevate con chiarezza dai responsabili della formazione, e una grande onestà dei giovani, fanno i conti con quei tipi di lotta che Linee comuni ha evidenziato. Intanto altri elementi si aggiungono nella vita del seminarista: lo studio filosofico-teologico, il servizio pastorale, le attese manifestate dalla chiesa locale. E’ molto opportuno che tutti questi aspetti siano percepiti come un aiuto al discernimento, e non come i segni di una scelta già fatta. E’ il momento, nel primo biennio, in cui è opportuno, se ci sono problemi di carattere psicologico, gravi o lievi che siano, che ci sia un adeguato supporto di analisi psicologica. Non è la panacea: non si può dire ad un giovane con gravi patologie, vai dallo psicologo e basta. Bisognerà discernere con lui se i tempi di cui ha bisogno la sua persona sono i tempi che gli chiederà prima o poi un cammino di seminario, e se la comunità lo mette in condizione di vivereciò di cui ha bisogno.E’ essenziale una formazione al discernimento: è una formazione esodale. Richiede cioè una conversione, una rinascita, che permette di prendere in mano la propria vita, di verificare le proprie intenzioni, di sostanziare le motivazioni, da un punto di vista teologale e quindi esistenziale. Il cammino dei due anni generalmente non basta; si va sempre un po’ oltre, per una scelta tendenzialmente definitiva che presupponga una adeguata conoscenza del giovane e soprattutto una sua adeguata maturità.
Tuttavia il d. v. non può andare avanti sine die: ha bisogno di confrontarsi con altri tempi, che sono quelli della formazione. Non mancano i casi in cui dopo il tendenzialmente definitivo si scelga di lasciare il seminario; generalmente accade perché le inconsistenze si rivelano con il passare del tempo e le situazioni di vita costringono ad un discernimento decisivo da parte dei superiori ( dimissioni), o in passaggi di grande verità e consapevolezza della persona (uscite sua sponte). La ciclicità della scelta arriva ad una definitività dopo un quinquennio intenso, nel quale nuove prospettive si devono necessariamente aprire nella vita del chiamato prima dell’ordinazione: la vita, la diocesi, le prime responsabilità, offrono “materia prima” per discernere sulla definitività della propria scelta. E’ un momento delicatissimo quanto l’ingresso in seminario, per questo deve esser caratterizzato dalla gradualità e non dalla urgenza di rispondere ai bisogni pastorali di una diocesi. Quante occasioni nuove di comprensione di sé abbiamo in questo periodo e alcune volte si decide di fermarsi o si rimette in discussione tutto. Ritornare a discernere è tuttavia importante, perché si porta nella vita uno stile che è dell’uomo, del credente, del presbitero. In prospettiva (e in conclusione) il cammino riguardo al discernimento – facilitandone certamente la realizzazione da parte dei soggetti coinvolti – può e deve favorirne anche l’apprendimento in quanto “arte”. Sul piano dell’esito non va posto solo il fondamentale obiettivo di accompagnare vocazionalmente la persona a comprendere la volontà di Dio riguardante la sua esistenza, ma anche quello di imparare a vivere il discernimento come dimensione di vita e come pratica pastorale dentro e in vista del ministero. Da questo punto di vista, quella del discernimento resta una difficile arte che si apprende e chiede “utensili”, strumenti e strategie non indifferenti, come ricordava Romano Guardini in tempi meno sospetti (quanto a efficienza): “Il semplice contemplare nel nostro animo una bella immagine d’uomo, e anche il fatto che la nostra volontà vi aspiri – ‘Questo vorrei essere!’ – ancora non bastano. Dobbiamo disporre di luce e di utensili. Dobbiamo discernere: ho da far così e così; devo fare questo; qui, devo impegnarmi. Allora, pian piano, facciamo emergere quella fisionomia”. Per apprendere, nella logica ignaziana, a “agire come se tutto dipendesse soltanto da Dio. Ma […]al tempo stesso operare come se tutto dipendesse esclusivamente da noi” (Sant’Ignazio di Loyola).Tra questi “utensili” va certamente posta come prioritaria l’arte del discernere dentro la vita quotidiana e fare della vita quotidiana oggi e, domani, del ministero pastorale, il luogo continuo del proprio discernere e continuare a formarsi. La pratica pastorale, il ministero dovrà apparire non come un qualcosa “di più” che vi si aggiunge (alla preghiera, al proprio stare davanti al Signore, al quotidiano discernimento della sua volontà, ecc.), ma il luogo “santo” dentro cui e attraverso cui lo Spirito del Risorto continua a farci capire cose sempre nuove e diverse, cosa va trovando, la vita bella di cui ci ha investito per grazia.
2. I soggetti del discernimento: l’ecclesialità di un accompagnamento.
Il soggetto che si pone in ascolto del Signore per il discernimento che riguarda la sua esistenza è ovviamente il chiamato. Le fasi che definiscono la sua identità sono passaggi determinati da questo atto di “individuazione della eventuale presenza o assenza dei segni della chiamata divina. Questo suppone: una profonda conoscenza delle norme della Chiesa, insieme a principi teologici ben saldi; conoscenza psicologiche adeguate; una illuminata prudenza.” La voce del Nuovo Dizionario di spiritualità parla del rapporto dialettico tra le due forme di discernimento, quella personale e quella comunitaria, e della espressione minima della mediazione ecclesiale data dal dialogo con il direttore spirituale. Oltre a questa presenza ecclesiale ci sono tuttavia altri soggetti, che accompagnano e hanno un ruolo decisivo.
La comunità d’origine è la prima realtà che accompagna il discernimento: il parroco, il vicario parrocchiale, il responsabile di un movimento ecclesiale, sono coloro che hanno formato, insieme alla famiglia, ad una vita di fede e hanno operato un primo discernimento, aiutandolo, sostenendolo, promuovendolo. Anche qui formazione e discernimento camminano di pari passo: una comunità che privilegia determinati ambiti pastorali permetterà e favorirà un discernimento che prende in considerazione ora gli uni, ora gli altri aspetti della vita cristiana. A volte si nota la parzialità di un discernimento legata alla parzialità di alcune esperienze, o tutte “spostate” sul piano dell’animazione o tutte propense più all’ambito liturgico. Il discernimento nella propria comunità di origine richiede una vita cristiana ricca e un vissuto comunitario, che non releghi le relazioni a quelle che si hanno con i sacerdoti o con un gruppo esclusivo della comunità. Un buon 50% del discernimento è favorito da questa esperienza di Chiesa!
E’ il vescovo che ha la responsabilità ultima del discernimento. Occorre tuttavia molto equilibrio nel sostituirsi al discernimento di chi condivide la vita quotidiana del seminarista e nel favorire un dialogo franco e sincero con il giovane. Il documento sulla formazione parla di un coinvolgimento di sacerdoti da lui delegati ad hoc. Mi rendo conto che la preoccupazione del vescovo di conoscere chi deve ordinare è grande: forme di vita comune possono favorire molto l’inizio di un ministero, ma un’attenzione a vivere il proprio ministero senza dimenticare le dinamiche della vita di un giovane, i tempi della formazione, sono possibili solo in uno stile di ecclesialità. Il rischio è che il giovane imposti la sua formazione senza avere fiducia nelle altre figure educative, e dato che l’incontro con il vescovo non potrà mai sostituire la formazione diuturna di una comunità, alcune problematiche rischierebbero di non essere verificate o addirittura messe sul tavolo. L’equilibrio della relazione con il seminarista e la fiducia e il dialogo costante con le persone preposte alla formazione potrà portare il frutto di un discernimento ben fatto. Senza voler entrare nel merito del compito di ciascuna delle figure educative che contribuiscono e accompagnano il giovane nel compito di discernere, faccio alcune osservazioni:
• Le persone preposte alla formazione e la loro formazione. La questione delle scienze umane, di una teologia spirituale della quale non si conoscono talvolta i rudimenti.
• La formazione, il discernimento e il clima educativo. Nella pratica del discernimento un ruolo chiave è assolto dalla qualità della vita comunitaria e quotidiana vissuta dai soggetti in formazione. L’alleanza tra le figure di discernimento, che sono chiamati per definizione a facilitarne la realizzazione, e l’ecclesialità, verso cui tutto il processo messo in atto è orientato, troveranno efficace e forza nella misura in cui tutto l’ambiente formativo (o se vogliamo quello che, una volta, si chiamava “la disciplina”) il clima appropriato che permetterà ai soggetti di fare chiarezza nella propria vita vocazionale. In questo il discernimento diventa opera istituzionale, anche esterna, e non solo cammino interiore del singolo, opera collegiale e comunitaria, e non solo azione individuale e personale, lavoro sinergico ed ecclesiale, e non invece attività nascosta e solitaria.
• Il lavoro su se stessi: la non direttività
• Il lavoro d’equipe
• L’apporto degli psicologi
• Evitare il facile temporeggiamento.
Il discernimento del chiamato e l’autenticità di una vita: conclusioni