Rispondere non solo è difficile, ma… pericoloso. Già, perché questa è LA domanda con cui si misurano istituzioni e congregazioni missionarie, specie italiani ed occidentali in generale.
Da diversi anni, ormai, vedono assottigliarsi inesorabilmente il numero dei giovani “autoctoni” e si arrovellano, fatalmente, attorno a quella questione. Certo, l’altro (felice) lato della medaglia è la crescita delle vocazioni “made in Africa”, America Latina e persino Asia. Quell’Asia che alcuni considerano -a torto – fatalmente impermeabile al Vangelo e dalla quale, invece, arrivano sorprese interessanti. Nel caso del Pime, ad esempio, solo negli ultimi anni ben 7 giovani birmani sono entrati nelle file dell’istituto, come frutti di speranza che coronano una storia ultracentenaria, un rapporto che il Pime ha intessuto col Myanmar per 140 lunghi anni.
Ma, detto questo, la domanda rimane lì, impegnativa come un macigno: perché i missionari godono ancora, tutto sommato, di buona fama, sono amati dall’opinione pubblica epperò così pochi giovani scelgono di seguire la stessa strada? Risposte – ripeto – non ne ho (figurarsi… non ne hanno i superiori generali!). Ma un sospetto sì, anzi due. Il primo: non sarà che siamo in presenza di un cambiamento epocale all’interno della Chiesa cattolica, il cui baricentro si sta spostando decisamente dalla Vecchia Europa al Sud del mondo? Se uno legge “La terza Chiesa” di Jenkins – un volume recente e documentato – non può non misurarsi con un fenomeno che appare globale e inarrestabile. E se così stanno le cose, inutile provare a fermare la valanga, meglio leggere i segni dei tempi. (Per inciso: provate a osservare anche come sta cambiando il volto della Curia romana, con l’ingresso di vescovi e cardinali da varie Paesi e il progressivo ridimensionamento della componente italiana ed europea…).
Il secondo sospetto è questo: non è che, forse, la penuria di vocazioni è legata anche a un certo modello di animazione missionaria? Negli ultimi anni/decenni, il mondo missionario ha molto battuto (e giustamente!) sui “nuovi stili di vita” (consumo critico, finanza etica, turismo responsabile ecc.), sulla scia della convinzione, perfettamente legittima e condivisibile, che ogni gesto quotidiano incide sulla “qualità della vita” dell’umanità, visto che siamo sempre di più un “villaggio globale” e via dicendo… Si è insistito a lungo e lavorato in chiave educativa (ripeto: a ragione!) per far comprendere le ricadute delle proprie scelte “feriali” (consumi, uso dei soldi, rapporto con l’ambiente…) sul resto del mondo, in particolare quella fetta di mondo che soffre di più.
Il sospetto è presto detto: non è che l’insistenza sulle “piccole scelte”, sugli “stili” di vita ha lasciato in ombra le “grandi scelte”, ovvero – diciamolo come va detto – la domanda sulla “vocazione”? Non mi azzardo a giudicare l’operato di tanti missionari, giovani e meno giovani, che si sbattono come pazzi per appassionare al Vangelo giovani spesso distratti. Non voglio istituire alcun processo alle intenzioni. Mi limito a registrare, da giornalista attento ai “flussi di comunicazione”, una sproporzione nei messaggi veicolati: tanto inchiostro, Internet, marce ecc sugli “stili”; molto, molto meno sulle “scelte di vita”.
Che questo conti qualcosa? Non mi aspetto di aver trovato ricette, casomai di innescare un dibattito che, questo sì ne sono certo, potrebbe giovare alla causa della missione.
(da Vino Nuovo)