Salvezza vuol dire tornare a Dio. L’omelia del Vescovo nella Santa Messa di Natale

“O ammirabile altezza, o deganzione stupenda! O umiltà sublime! O sublimità umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio…discese nel grembo della Vergine” (S. Francesco. Cfr FF 221; 144)…

La Parola di Dio di questa solennità si apre  con l’invito alla gioia: “Come sono belli i piedi del messaggero che annucia la pace, del messaggero di buone notizie che  annunzia la salvezza…” (Isaia 52,7) e ancora : “prorompete in canti di gioia, perché il Signore ha consolato il suo popolo…” (Isaia 52,7).

L’eterno entra nella storia; l’Onnipotente si fa piccolo e si consegna nelle nostre mani; il Dio fedele viene in mezzo a noi per realizzare ciò che ha promesso; la misericordia di Dio si fa uomo per salvare l’umanità. Tutto ciò però avviene in modo umile, quasi dimesso: il Signore non impone la sua presenza, ma viene a chiedere la nostra accoglienza. Un’accoglienza che troppo spesso gli rifiutiamo:“Per loro non c’era posto nell’alloggio!”.

“Venne tra i suoi, e i suoi non l’hanno accolto”. E’ il pensiero che  ascoltiamo nel Vangelo di Luca attraverso la vicenda della Sacra famiglia: Giuseppe torna nella sua terra di origine, nella terra dei suoi padri, ma non c’è posto per lui. Una vicenda parabolica di ciò che avviene al Verbo fatto uomo: il Figlio eterno del Padre, per mezzo del quale tutto è stato fatto e senza il quale nulla esiste (Gv 1,1-18) viene nel mondo, tra i suoi, ma sono pochi quelli che lo accolgono; solo i pastori, i piccoli e umili, sono capaci di accogliere la grandezza che si esprime nell’umiltà. Per loro l’umile segno del bimbo in una mangiatoia diventa il segno della Speranza che si realizza: il Signore non ha abbandonato il suo popolo e viene a liberarlo, viene a donarci la possibilità di vivere una vita piena di senso, bella e aperta all’eternità.

Gesù ci rivela i tratti del volto del Padre, dissipa ogni equivoco e strappa le maschere che gli uomini hanno applicato all’immagine di Dio. Gesù è la vita offerta ad ogni uomo contrassegnata da una pienezza e da una bellezza che superano ogni attesa. Gesù è la luce che rischiara le profondità del nostro cuore e illumina le strade che portano alla felicità, una luce più forte di qualsiasi tenebra, di ogni dubbio e di ogni inganno che minacciano il nostro cammino.

In un contesto di paura del futuro e incertezza, come quello presente, in cui sembra che vengano a mancare tutte le certezze (economiche e morali), abbiamo quanto mai bisogno della Speranza che è rappresentata dal Bambino di Nazaret: il Signore vuole e può ancora intervenire nella nostra storia, ma ci chiede di fargli spazio nella nostra vita, di trovare il posto per Lui nel nostro cuore.

Quale spazio daremo al Verbo fatto carne, cioè a Gesù. Viene tra noi; ma lo accoglieremo? Cammina sulle nostre strade umane, ma lo riconosceremo? Bussa alla nostra porta per entrare da noi: ma gli faremo posto? Come riconoscere che abbiamo effettivamente accolto il “Verbo fatto carne” nelle nostre vite?  Chi accoglie Cristo nella propria vita e segue la sua parola diventa egli stesso dimora di Dio. L’uomo accede alla condizione di figlio di Dio: il rapporto uomo-Dio che il peccato aveva interrotto è risaldato in Cristo. Divenuto figlio di Dio l’uomo è in grado di realizzare il suo compito di creatura: egli può rivolgersi a Dio e chiamarlo “padre” ed è libero  perché è figlio e non servo, ed ama gli altri uomini perché fratelli.

Dio brama di essere conosciuto dall’essere umano.  Dio desidera ricostruire il dialogo con l’uomo.

Tutto l’Antico Testamento diventa la storia della richiesta di Dio di ristabilire la conversazione, di riattivare la comunione interrotta. Cristo, la Parola della Creazione, ritorna come parola di ri-Creazione, la parola che riporta all’inizio perduto e ricostruisce la connessione spezzata in ciasc uno di noi e fra di noi

Ma quanto rifiuto dopo tanta attesa! E il bisogno rimane insoddisfatto. S’è scambiato il buio, non s’è riconosciuto Giovanni, il testimone non s’è compreso. Credibile, ragguardevole ed inviato, degno di stima e di notevole valore, dopo aver gridato per far dire la Parola, ora tace, per dare spazio alla grazia di comunicarsi, per dar ragione a quanto s’attende d’esser pronunciato. Anche la sua morte (del Battista) parla! Rigetto, rifiuto, ripudio. Ma non ci si dispera.

Salvezza vuol dire tornare, tornare a Dio, guardare di nuovo nella sua direzione, volgersi a Lui. Tornare a Dio perché ce ne allontaniamo continuamente, dimentichiamo le sue promesse, i suoi comandamenti. Tornare a Dio, perché improvvisamente ci accorgiamo di essere soli, di averlo perso di vista, di non ascoltarlo più e di non parlargli più, di non cercarlo più e di non attenderlo più. Tornare a Dio, ritrovare lui per ritrovare noi stessi, tornare a lui per ritornare anche a noi stessi, tornare a lui per ritrovare anche il prossimo che avevamo perso, dimenticato, ricusato. Tornare a Dio: ecco il grande nome per indicare la salvezza.

Straordinario è il viaggio di Gesù perché è il più lungo che sia mai stato compiuto: da Dio fino a noi, una grande distanza. E perché lo ha compiuto? Per venirci a cercare. Ci eravamo infatti perduti, perché avevamo dimenticato Dio, ma Dio non aveva dimenticato noi.

Noi celebriamo Gesù, ma lo abbiamo allontanato, lo abbiamo fatto diventare un Dio lontano e invece Egli ci ha detto : “Starò con voi, se mi invocate sarò con voi”.

Aiutiamoci a riscoprirlo per trovare uno srtile di vita con Lui.

Sapere che Dio non è lontano, ma vicino, non indifferente, ma compassionevole, non estraneo, ma Padre misericordioso che ci segue amorevolmente nel rispetto della nostra libertà: tutto questo è motivo di una gioia profonda che le alterne vicende quotidiane non possono scalfire. Caratteristica inconfondibile della gioia cristiana è che essa può convivere con la sofferenza, perché è tutta basata sull’amore. In effetti, il Signore che ci è vicino, al punto da farsi uomo, viene ad infonderci la sua gioia, la gioia di amare. Solo così si capisce la serena letizia dei martiri anche in mezzo alle prove, o il sorriso dei santi della carità dinanzi a chi è nel dolore: un sorriso che non offende ma consola. (Giovanni paolo II all’Angelus il 14 dicembre 2003.