Esortazione, consolazione, conferma (allegato al Decreto)

 

Nella Visita Pastorale voglio lasciarmi ispirare dal discorso di Paolo ai presbiteri di Mileto, in maniera speciale dalle due parole che caratterizzano lo stile e lo scopo del “testamento pastorale” dell’apostolo:“conferma e consolazione”.

“Appena cessato il tumulto (descritto nel cap. 19) Paolo mandò a chiamare i discepoli e, dopo averli esortati, li salutò e si mise in viaggio per la Macedonia” (At 20,1). Incoraggiamento ed esortazione diventano vera e propria “consolazione”.

Paolo arrivando in Grecia, incontra nuovamente alcune comunità precedentemente evangelizzate: “Dopo aver attraversato quelle regioni, esortando i discepoli con molti discorsi, arrivò in Grecia” (At 20,2). Anche qui offre un discorso di consolazione (parakalèsas autous).

Una descrizione più circostanziata la troviamo in Atti 14: “Dopo aver annunciato il Vangelo a quella città e aver fatto un numero considerevole di discepoli, ritornarono a Listra, Icònio e Antiòchia, confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede «perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni»” (Atti 14,21-22).

Si tratta di una seconda visita a comunità che da vario tempo avevano accolto il Vangelo e intrapreso il cammino fraterno della fede. C’è un verbo nuovo “confermando” che la precedente edizione della Bibbia Cei traduceva con “rianimando”, cioè fortificando le anime, consolando la psicologia dei discepoli.

All’attività più speciale di consolazione che abbiamo colto nel capitolo 20 di Atti si accompagna quella di consolidamento, di conferma, di irrobustimento, per far si che i fedeli ritrovino l’entusiasmo del primo impegno.

Abbiamo poi anche in sintesi il contenuto della predica paolina: “dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni”. Spesso, infatti, sono le difficoltà che ci formano nel camino della fede e della dedizione al Regno, e qui l’apostolo ricorda la serietà della Croce.

Interessante è pure il racconto del cap. 15,30 degli Atti , dove si dice che Paolo e i suoi compagni andarono ad Antiochia per consegnare alla comunità la lettera degli Apostoli e degli anziani di Gerusalemme.

“Quando l’ebbero letta, si rallegrarono per l’incoraggiamento che infondeva. Giuda e Sila, essendo anch’essi profeti, con un lungo discorso incoraggiarono i fratelli e li fortificarono”. (At 15, 31-32). Nel capitolo 16, 4-5 viene descritto lo scopo della seconda visita pastorale di Paolo, cioè la fortificazione e il consolidamento della comunità: Paolo e Timoteo “percorrendo le città, trasmettevano loro le decisioni prese dagli apostoli e dagli anziani di Gerusalemme, perché le osservassero. Le Chiese intanto andavano fortificandosi nella fede e crescevano di numero ogni giorno” (At 16, 4-5).

La stessa attività dell’apostolo è richiamata nel capitolo 18, dopo il suo ritorno ad Antiochia: “Trascorso là un po’ di tempo, partì: percorreva di seguito la regione della Galazia e la Frìgia, confermando tutti i discepoli” (At 18, 23).

Anche qui si tratta di rianimare, consolare, rimettere in sesto le comunità e la vita dei discepoli.

Sono convinto che anche noi oggi abbiamo un urgente e sostanziale bisogno di parole di consolazione e di consolidamento.

Quali potevano essere al tempo di Paolo le situazioni che hanno motivato e contrassegnato l’attenzione e il cuore dell’apostolo, che hanno ispirato le sue lettere e le sue visite?

Una certa fragilità nei fedeli, fragilità di singoli e di gruppo.

La fatica della comunione nelle diversità e la facile tendenza a dividersi e contrapporsi, a mettersi gli uni contro gli altri. Il libro degli Atti e più ancora le lettere paoline lo ricordano con grande verità e trasparenza.

Le sofferenze, amarezze e tensioni che nascevano da quella fragile comunione di cuori.

La sfida della perseveranza: i cristiani vivevano momenti mirabili e straordinari nell’esperienza di fede che tuttavia non duravano a lungo. C’era continuamente bisogno di consolidare e ritrovare ad un livello più profondo e consapevole la comunione.

Pensiamo poi alle fragilità derivanti dall’inserimento delle piccole comunità cristiane in un ambiente ostile.

Vivevano infatti immerse nel mondo pagano, frivolo, consumista, godereccio, indifferente, aperto a tutti i culti e sempre pronto ad abbandonarli tutti, con una grande facilità di cedimento al relativismo e all’indifferenza.

Non ci deve stupire quindi se i fedeli potevano cedere ad una certa ipocrisia, o si lasciavano tentare dallo scoraggiamento, dalla voglia di andarsene, o addirittura rinnegavano le promesse fatte e retrocedevano sul cammino intrapreso (Cfr. At 5,1-11).

Anche noi oggi, facciamo fatica a tenere alta la tensione motivazionale e lo slancio sui tempi lunghi, con troppa facilità ci stanchiamo (a volte prestissimo e per molto poco) e per questo abbiamo sempre e urgentemente bisogno di essere sostenuti, incoraggiati.

Le parole di Paolo a Mileto rivelano la fragilità come qualcosa di strutturale e non semplicemente congiunturale. La fragilità ci caratterizza, ci accompagna. Non viviamo qualcosa provocato unicamente dalla complessità e durezza del nostro tempo. Lo scoraggiamento, la disillusione, la tentazione del riflusso nel privato, la voglia di calare le braccia, di abbandonare il campo o il procedere per inerzia non sono atteggiamenti nuovi, non caratterizzano unicamente la modernità, non ci appaiono imprevedibili. Se i cristiani dell’inizio avessero vissuto soltanto l’entusiasmo, la parresia, il bene, l’Apostolo non avrebbe avuto il bisogno di visitarli, e contattarli con le sue lettere, a volte piene di tenerezza, altre volte ostiche e dure come la schiettezza e verità, per portare comunque a tutti consolazione e conforto, per orientare con la luce rivoluzionaria e sconvolgente del Vangelo le scelte personali e comunitarie. Possiamo allora francamente confessare che siamo fragili, senza per questo vergognarci. Dobbiamo e possiamo guardare in faccia le nostre inconsistenze e debolezze, possiamo dargli un nome e affrontarle per superarle. Conseguentemente non basta suscitare il primo impegno. Dobbiamo continuamente rianimarci e rianimare.

Si comincia bene, ma poi ci si stanca lasciandosi afferrare dall’atmosfera pesante. Iniziare è facile, continuare, più difficile, arrivare alla fine è sempre estremamente esigente. Solo attraverso continue conferme, consolazioni, consolidamenti, conforti, possiamo crescere, senza mai pretendere di affrettare i tempi del processo psicologico e biologico, ma rispettando umilmente le stagioni, ricordando che i nostri padri nella fede hanno percorso la medesima strada.

Oggi ci stiamo rendendo conto che la nostra evangelizzazione normale presuppone la fede, ma non riesce a generarla. Ci accorgiamo che tanti ‘praticanti’ non sono ‘credenti’.

Abbiamo il dovere di ripensare modi per generare e rigenerare la fede che porti ad un incontro vero con il Cristo dei Vangeli. Forse è la fine di un certo cristianesimo nel quale non si poteva essere altro che cristiani. Comunicare oggi il Vangelo non significa solo inserire contenuti religiosi nei siti internet, nei blog o nei social networks, significa soprattutto testimoniare con coerenza il vangelo nel modo di relazionarsi con gli altri, testimoniando uno stile diverso, fatto di onestà, apertura, responsabilità e rispetto.

È un cammino delicato e lungo ma che bisogna percorrere in fretta.

L’apostolo prima, il vescovo oggi sono il segno del Pastore Buono, vero e bello che ha scelto di rimanere con noi tutti i giorni fino alla consumazione dei secoli. Nella visita del Vescovo vogliamo riconoscere e vivere la manifestazione del Padre Dio, la prossimità di Gesù fondamento vivo della comunità, il vento, la libertà e la profezia dello Spirito Santo.

Allora chiamando per nome senza paure e pudori le nostre particolari fragilità, riconoscendo le fatiche, gli intoppi che bloccano il nostro cammino di chiesa, riflettiamo sulle conferme di cui abbiamo bisogno a livello di singoli, di gruppi, di comunità. La consolazione fa riferimento agli affetti, sentimenti, emozioni, tristezze, amarezze, solitudini, ire, ai conflitti nei quali siamo direttamente o indirettamente coinvolti e che spesso hanno bisogno dell’olio di tenerezza, del balsamo dello spirito.

Prepariamo la visita e prepariamoci alla visita interrogandoci su questo: di quali conferme ho soprattutto bisogno, Signore, da te e dagli altri, dalla comunità, dai fedeli? Quali sono la cause profonde della stanchezza? Che cosa ho perso di vista, da che cosa sono appesantito? Come ritrovare l’entusiasmo del primo amore?

Lasciamoci invadere dallo Spirito, invochiamolo, accogliamolo perché è lo Spirito Santo il vero paraclito, il consolatore per eccellenza dell’uomo.

Giovanni Paolo II ha scritto delle pagine splendide nella Dominum et vivificantem sull’ufficio di conferma e di rafforzamento proprio dello Spirito Santo e vi consiglio di leggerle. Si trovano sia nella II parte della enciclica, dove è spiegato come lo Spirito convince l’uomo di peccato e come lo pone di fronte alla croce di Cristo; sia nella III parte, ai nn. 58 e 59.

L’uomo, infatti, non è capace da solo di tenere lo sguardo fisso sulla propria interiorità e deve continuamente riscoprirla alla luce della grazia. Lo Spirito ci è donato misericordiosamente da Dio per purificarci dalla nostra superficialità, dalle nostre frivolezze e fugacità, dalla falsa interiorità e per restituirci il vero e pieno concetto di noi stessi. “Grazie alla divina comunicazione lo spirito umano… si incontra con lo Spirito che scruta le profondità di Dio. In questo Spirito, che è dono eterno, Dio uno e trino si apre all’uomo, allo spirito umano” (DV, 58).

Suggerisco, per la meditazione personale, di metterci anzitutto in adorazione e preghiera di questo Spirito, magari ripetendo lentamente la sequenza “ Veni, Sancte Spiritus”, che è una congiunzione del tema fondamentale: lo Spirito che consola, che conforta, che conferma, che consolida l’intimo dell’uomo.

Il primo rimedio è dunque di non presumere di farcela da soli, ma di supplicare lo Spirito Santo affinché riempia i nostri cuori, accenda in essi il fuoco del suo amore, riscaldi le nostre freddezze e dia luce alle nostre menti.

L’azione consolatrice dello Spirito mostra la sensatezza soprannaturale del camino della croce.

E questo il modo con cui Dio consola, è questa la parola di Gesù ai discepoli di Emmaus: “Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,25-26 ).

La spiegazione, mediante le Scritture, del cammino della Croce fa ardere il cuore dei discepoli e quindi consola, conforta, ridona senso alla vita e al sacrificio, mostrando la proporzione tra l’itinerario dell’uomo verso la riconquista della propria libertà e la meta della gloria e della risurrezione.

La ragionevolezza soprannaturale della croce è espressa da San Paolo nel brano già richiamato, dove rianima ed esorta i discepoli a restare saldi nella fede perché “ è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio”.

Infine possiamo salvarci dalla soggettività esasperata abbandonandoci alle parole e ai gesti della Chiesa, convinti che possono davvero avere senso e rilevanza anche per noi.

C’è talora una sorta d’affanno nel voler conoscere il perché dei singoli gesti liturgici o delle realtà istituzionali, che indica la volontà di trovare sempre e in tutto una giustificazione emotiva. Talora, l’esagerata soggettività segna anche l’esperienza di orazione.

Non è forse vero che la continua e insistente domanda a Dio: “ insegnami a pregare!” può nascondere il desiderio di gustare sensibilmente, quasi di verificare nell’immediato, il dialogo con il Signore? Nasce così la ricerca delle condizioni per una preghiera che soddisfa e si rifugge dalle condizioni in cui non è possibile tale verifica.

Siamo qui di fronte a una malattia spirituale che affligge un poco tutti noi e ci vorrà probabilmente un’intera vita per compiere il camino di purificazione descritto da San Giovanni della Croce e da Santa Teresa d’Avila e che ci fa passare dalla immediata sensibilità e emotività ad una maggiore e più seria oggettività.

La Chiesa, con la sua liturgia, i suoi gesti e le sue parole, è garanzia di oggettività e ci aiuta ad entrare nella verità della preghiera e nella nudità della fede.

Dobbiamo avere “orecchi attenti”, capacità di ascolto responsabile ed impegnato nella situazione presente, senza per questo cedere alla paura, perché la storia è riscattata, è amata da Cristo, salvata da Lui. (Rom 8,35-39).

Non mancano nella nostra vita di Chiesa, nella ferialità delle nostre comunità opere belle, attività significative; dobbiamo riconoscere che si fanno tante cose, siamo animati da una indubbia laboriosità ma ci può capitare di non compierle con l’amore di prima, l’intensità e esclusività di prima. Forse il pericolo più grande è quello di fare tante cose perdendo di vista Colui che è la ragione di tutto e la fonte del bene: Dio Padre, Figlio, Spirito santo.

La visita può aiutarci a ritrovare l’essenziale, quello che ci è stato trasmesso e dobbiamo consegnare, ciò che non cambia e deve restare. La visita può indurci a fissare di nuovo e con rinnovato stupore lo sguardo su Gesù autore e perfezionatore della nostra fede.