L'omelia di Mons. Rocco Pennacchio nell'ordinazione episcopale di Mons. Andreozzi

La chiamata all’episcopato è per un presbitero una nuova vocazione

Riportiamo, di seguito, il testo integrale dell’omelia dell’arcivescovo di Fermo Mons. Rocco Pennacchio nell’ordinazione di Mons. Andrea Andreozzi nuovo vescovo della nostra Diocesi

Carissimi fedeli,

abbiamo appena ascoltato la bolla con la quale il Santo Padre ha nominato il nostro fratello Andrea Vescovo di Fano-Fossombrone-Cagli-Pergola. Questa solenne liturgia ci mostra, nella Parola di Dio, nei riti e nelle preghiere, a quale dignità oggi egli viene chiamato, un ministero che gli verrà trasmesso attraverso l’antico gesto delle imposizioni delle mani e che egli si impegnerà ad esercitare fino alla morte. 

In particolare, le domande che fra qualche minuto gli verranno poste delineano il profilo della sua missione. Ascoltiamole con attenzione, perché molti conoscono il Vescovo solo per qualche aspetto, magari per ciò di cui hanno avuto bisogno, e forse si chiedono – come è capitato sentirmi dire – “Ma tu, come trascorri le tue giornate?

Sentiremo che il Vescovo è chiamato a predicare il Vangelo con fedeltà e perseveranza, (per questo il libro dei Vangeli verrà tenuto aperto sulla testa dell’ordinando durante la preghiera di consacrazione). È chiamato a custodire il deposito della fede, in comunione con gli altri vescovi e in filiale obbedienza al Papa; è colui che si prende cura del popolo santo di Dio e, insieme ai presbiteri e ai diaconi lo guida alla salvezza; il vescovo è attento ai poveri che sono immagine di Cristo e si interessa di quanti si smarriscono per edificare in unità il suo corpo che è la Chiesa. Per compiere il mistero che gli viene oggi affidato, don Andrea, con l’aiuto di Dio, si impegnerà ad essere irreprensibile e a pregare incessantemente per il popolo che gli viene affidato.

Multiforme è, perciò, il ministero di un vescovo. Le stesse domande, tuttavia, e soprattutto la Parola che abbiamo ascoltata ci orientano su un punto: il legame con il popolo di Dio, sul quale anch’io intendo concentrare l’attenzione.

Nel libro dell’Esodo, Dio definisce Israele – lo abbiamo anche cantato all’ingresso dei sacerdoti – una proprietà particolare, un regno di sacerdoti e una nazione santa. È una definizione antica e attualissima, che ha ispirato la dottrina conciliare sul popolo di Dio. La Chiesa non è una massa anonima, un’organizzazione sociale ma – come scrive san Pietro nella sua prima lettera – un edificio di pietre vive, cementate attorno a Cristo, pietra angolare. In virtù del Battesimo i cristiani possono essere chiamati stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo di Dio

L’espressione sacerdoti per il nostro Dio, che appare nell’Esodo, spinge ogni vescovo a condurre il popolo a lui affidato a esercitare il suo sacerdozio, cioè a realizzare con Cristo, per Cristo ed in Cristo la vocazione alla santità, nella quotidianità della vita cristiana e nella edificazione della comunità. Caro Andrea, il nostro ministero e quello dei presbiteri, il nostro sacerdozio ministeriale non è autoreferenziale, è ordinato ai fedeli perché vivano pienamente, non in condizione d’inferiorità, il loro sacerdozio cosiddetto “comune”; se ciò non accade siamo gravemente inadempienti. Il cammino sinodale ci sta spronando in questa direzione, orientandoci ad edificare la Chiesa corresponsabilmente, sentendoci compartecipi di un destino comune. Edificare la Chiesa diocesana e condurla in unità, questo è primariamente compito del Vescovo.

Per questo popolo, ci ha ricordo Paolo nella seconda letturaCristo morì (…) mentre eravamo ancora peccatori”. Il Vescovo è colui che incarna il ministero della riconciliazione che Cristo ci ha affidato. Riconciliazione non vuol dire solo perdono (purtroppo da vescovi si confessa poco) ma anche accoglienza, fraternità, comunione, attenzione a chi rimane ai margini perché, nella sua marginalità, è prediletto da Cristo. 

Il vescovo esercita questo ministero di riconciliazione innanzitutto con i suoi presbiteri, avendo attenzione specialmente i preti stanchi e sfiniti, scoraggiati, delusi, sofferenti, soli, bisognosi di ascolto, di misericordia, di amore. Quanto vorremmo dire a tutti i nostri presbiteri: Coraggio! La scommessa della fraternità è sempre vincente sull’illusoria consolazione dell’isolamento. 

Memorabili le parole di San Giovanni Paolo II nella Esortazione Apostolica Pastores gregis: «La cura spirituale del suo presbiterio è un dovere primario per ogni Vescovo… Il gesto sacerdotale che pone le proprie mani nella mani del Vescovo, nel giorno dell’ordinazione presbiterale, professandogli «filiale rispetto e obbedienza», a prima vista può sembrare un gesto a senso unico. Il gesto in realtà impegna entrambi: il sacerdote e il Vescovo. Il giovane presbitero sceglie di affidarsi al Vescovo e, da parte sua, il Vescovo si impegna a custodire queste mani. Il Vescovo diviene in tal modo responsabile della sorte di quelle mani che accetta di stringere tra le sue. Un prete deve poter sentire, specie nei momenti di difficoltà o di solitudine, che le sue mani sono strette da quelle del Vescovo» (n. 47)

Attraverso i presbiteri, suoi primi collaboratori, e i diaconi il vescovo guarda e cerca i fedeli battezzati più vicini, quelli della soglia, i lontani, che sono la maggioranza. Insieme, sentiamo la responsabilità di essere strumenti di riconciliazione e di comunione.

Il Vangelo ci mostra Gesù che, di fronte alla folla stanca e sfinita ne sente compassione e invia i Dodici per liberare dagli spiriti impuri e guarire dalle infermità, annunciando che il regno dei cieli è vicino. Caro Andrea, tra i nomi di tutti gli apostoli, considera oggi anche il tuo. La chiamata all’episcopato, infatti, è per un presbitero una nuova vocazione, il nuovo inizio di un uomo che il Signore ha chiamato e assunto fra gli altri uomini (cfr. Eb 5,1) perché senta compassione, non si rassegni di fronte al dolore del mondo e sappia versare l’olio della consolazione ed il vino della speranza. 

C’è ancora chi considera questa chiamata una carica a cui ambire, una promozione; altri, un peso troppo difficile da sopportare. Entrambi i concetti sono erronei perché centrano l’attenzione sulla persona del vescovo e le sue doti. Annunciare il Regno, guarire, consolare, ammaestrare e – aggiungo – amministrare, governare, possono far tremare le vene e i polsi. Certo, qualora pensassimo che tutto dipendesse da noi, l’ansia da prestazione, il confronto con altri, la tentazione della vanagloria, insomma, il peso del giogo, che tu hai scelto come simbolo nello stemma, sarebbe insostenibile. 

Solo se consideri che sei mandato per la sua messe, puoi accogliere con disponibilità d’amore questa prospettiva e così puoi restituire gratuitamente ciò che  gratuitamente hai ricevuto. Il segreto per non farsi prendere dalla tentazione del martalismo, come l’ha definito papa Francesco, è rimanere legati a Lui. La grandezza dell’episcopato e la sua condizione di possibilità, come fu per gli apostoli, risiede nel fatto che, in cambio della generosità a donarsi nell’amore, il Signore affida il suo tesoro a noi, vasi di creta, e così rende soave e leggero il giogo. Non ho dubbi, per come ti abbiamo conosciuto, per la tua indole e la tua storia, che tale consapevolezza ti accompagnerà per tutta la vita.

 

Un popolo sacerdotale, per il quale Cristo ha dato il suo sangue, che è la sua messe: vieni inviato per questo popolo, sei pastore in mezzo alle pecore per portarle a pascoli erbosi, ad acque tranquille, per farle ristorare e riposare, sulle orme del Bel Pastore. 

 Cristo ha esercitato il suo sacerdozio immolandosi sulla croce, tu parteciperai al suo sacerdozio venendo unto sul capo con l’olio del Sacro Crisma; diremo nella preghiera consacratoria: per la mansuetudine e la purezza di cuore tu sia offerta viva gradita per Cristo suo Figlio: come Cristo si offrì per il Padre, così sarai l’unto di Dio che si offre spassionatamente per gli uomini, specialmente per i tanti battezzati – sacerdoti anch’essi, come abbiamo detto – che sono Chiesa ma non si sentono più a casa nella Chiesa, non la sentono loro madre o non ritengono così importante per la loro vita da prenderne parte. Che il profumo del crisma di salvezza arrivi veramente a tutti. 

Caro Andrea, la consapevolezza di essere offerta viva sarà il sostegno alla quotidianità della vita, molto diversa dalla solennità e sontuosità della liturgia che stiamo celebrando. Rimane vero, infatti, che il Vescovo è un uomo come tutti, con le sue fragilità, i suoi momenti di sofferenza, le sue ribellioni, le sue solitudini. Quanto bene fa sentirsi dire, ogni tanto: come stai? Posso venire a trovarti per stare un po’ insieme o anche pregare insieme… Non cerchiamo gratificazioni ma le consolazioni non mancheranno, prima fra tutte la consolazione di essere in Cristo, e poi i legami belli che ti uniscono a quanti ti hanno conosciuto, non ultima la fraternità episcopale che già hai sperimentato con i vescovi della nostra regione quando due anni fa hai predicato gli esercizi spirituali. 

Alla mia ordinazione il Vescovo citò don Tonino Bello ricordandomi, con le sue parole, di indossare non solo anello, mitra e pastorale ma anche il catino e l’asciugatoio per lavare i piedi a quanti avrei incontrato. Due giorni fa, con ventidue presbiteri abbiamo concluso gli esercizi spirituali sulla sua tomba e abbiamo pregato per te. Ci è stato ricordato che don Tonino, all’inizio del suo ministero episcopale disse: “Vorrei essere un vescovo fatto popolo, un vescovo elevato alla dignità di popolo”. Confesso che, per me, la più grande consolazione è sapere che in ogni Messa celebrata nella diocesi il popolo di Dio ricorda me al Padre: questo, ancora una volta il legame col nostro popolo, e non altro, ci mantiene in piedi.

Vieni ordinato nella nostra bella Cattedrale, il luogo dove veneriamo le reliquie e le spoglie di santi e beati, testimoni della nostra terra e, dove riposano i Vescovi miei predecessori defunti. Tutti questi testimoni della fede hanno vissuto il Vangelo e speso la vita per la Chiesa di Fermo che ti ha generato, una Diocesi che ha lo sguardo aperto, che è generosa nell’inviare i suoi figli quando le necessità della Chiesa lo richiedono e che tre anni fa non esitò a dire sì al tuo incarico di Rettore del Seminario Umbro… Nessuno si impoverisce quando dona. Prendiamo però sul serio, carissimi fratelli e sorelle, l’invito di Gesù a pregare il padrone della messe perché mandi operai (magari oltre ai vescovi, anche qualche prete in più!) nella sua messe.

Concludo con le parole di San Paolo VI: «Il Nostro incoraggiamento per te, Fratello nell’Episcopato, è di assumere con umiltà, con coraggio, con fiducia il peso formidabile della responsabilità episcopale: sii, Fratello, nella tua persona consacrata, la gloria di Cristo; sii, Fratello, anche nella missione che ti attende, la gloria di Cristo!: è il gaudio, è il voto, è la speranza della Chiesa di Dio: sii la gloria di Cristo!».

Affidiamo il tuo ministero episcopale a Maria Assunta in cielo, a S. Sabino, ai santi patroni della nostra diocesi e della diocesi di Fano-Fossombrone-Cagli-Pergola. 

Alla Vergine santa diciamo: Regina degli Apostoli, prega per noi, o clemente, o pia, o dolce vergine Maria.